Licenziamento-illegittimo-riforma-Fornero

Cosa è il  giustificato motivo del licenziamento ?

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Il licenziamento per giustificato motivo può riguardare uno o più lavoratori (licenziamento plurimo).

La nozione di giusta causa la ritroviamo all’interno dell’art.2119 c.c., mentre quella di giustificato motivo nasce all’interno dell’art.3 L.604/1966.

Nel licenziamento per giustificato motivo è necessario un preavviso, secondo i contratti di lavoro, senza il quale il datore di lavoro dovrà pagare al lavoratore la relativa retribuzione.

Il giustificato motivo oggettivo  è configurabile quando esiste un’esplicita necessità dell’impresa ad esempio crisi impresa o chiusura di una unità locale se non si puo’ adibire il lavoratore ad altra unità,

Come si procede

Ai sensi della legge  n. 92/2012 (c.d. Legge Fornero), il legislatore ha ritenuto opportuno prevedere che, nel caso di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro che abbia alle proprie dipendenze più di quindici lavoratori nella stessa unità produttiva o nello stesso Comune o comunque più di sessanta complessivamente, debba seguire una specifica procedura.


Tale procedura, indicata nel nuovo testo dell’art. 7 della Legge 604/1966, prevede che:
a) il datore di lavoro che ritenga di trovarsi in una delle situazioni che rendono necessario per motivi oggettivi il licenziamento di un lavoratore, prima di formalizzare il recesso dal contratto di lavoro, deve inviare alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e, per conoscenza, al lavoratore , una comunicazione in forma scritta in cui siano indicati:

  • l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo;

  • gli specifici motivi alla base del licenziamento;

  • le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato;

Entro il termine perentorio di sette giorni decorrenti dalla data di ricezione della comunicazione, la Direzione territoriale del lavoro deve convocare le parti (datore e lavoratore), che consiste sostanzialmente in un tentativo di conciliazione, da svolgersi dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione prevista dall’articolo 410 del codice di procedura civile.

L’incontro dovrà svolgersi e concludersi entro venti giorni  (di calendario) dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione (salvo, naturalmente, che le parti non ritengano, di comune accordo, di proseguire i contatti nel tentativo di raggiungere un accordo).

Durante l’incontro  datore di lavoro e lavoratore potranno farsi assistere dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o abbiano conferito mandato, oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, ovvero da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Al termine dei venti giorni (o del più lungo periodo concordato tra le parti o del periodo di sospensione dovuto a legittimo e documentato impedimento del lavoratore), se non si è trovato un accordo, il datore di lavoro potrà comunicare  il licenziamento al lavoratore nel rispetto delle seguenti condizioni:

  • forma scritta;

  • specificazione dei motivi che lo hanno determinato;

  • rispetto del diritto del lavoratore a prestare il contrattuale periodo di preavviso oppure, in alternativa, a ricevere la relativa indennità sostitutiva.

Tanto il licenziamento quanto le dimissioni saranno comunicate per iscritto.

In attuazione dell’art. 4, comma 17, della legge 28 giugno 2012, n. 92, oltre a quanto previsto dall’Accordo Interconfederale 3 agosto 2012, la convalida delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali può essere validamente effettuata in sede aziendale se il lavoratore è assistito da un componente della rappresentanza sindacale unitaria.

Giustificato motivo soggettivo

Il giustificato motivo soggettivo si differenzia dalla giusta causa in quanto non così grave da consentire il  licenziamento in tronco senza preavviso. Ha anch’esso una motivazione disciplinare, legata all’inadempienza del lavoratore rispetto agli obblighi contrattuali (contratto di riferimento).

Ad esempio una prolungata assenza che l’azienda dimostri di non poter sopportare, avendo necessità di affidare ad altri quelle determinate mansioni.

E’ ammesso il licenziamento per superamento del periodo di comporto (l’arco temporale in cui, in caso di malattia, il lavoratore ha diritto di conservare il posto) scaduta tale finestra, a meno che lo stato di malattia non dipenda dalla violazione di misure di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

Giustificato motivo oggettivo

Il diritto di libertà dell’attività economica privata è sancito dall’art. 41 della Costituzione: quando il datore di lavoro ritiene che per attuare delle modifiche sia necessario licenziare un dipendente ha facoltà di farlo, ma in caso di contestazione dovrà dimostrare il giustificato motivo oggettivo (ad esempio, il reale riassetto dell’azienda).

Spetta all’azienda l’onere della prova: deve dimostrare la sussistenza delle ragioni del licenziamento, il nesso di causalità con il recesso dal rapporto di lavoro, l’impossibilità di ricollocare il dipendente presso un reparto diverse o spostarlo a mansioni diverse rispetto a quelle precedentemente svolte (anche inferiori alle precedenti, se il lavoratore accetta).

In caso di ricorso, il giudice ha l’obbligo di controllare la veridicità delle ragioni addotte ma non può entrare nel merito delle scelte del datore di lavoro, ossia non può opporsi al ridimensionamento o riorganizzazione aziendale.

Se in sede di contestazione il lavoratore si trovi nella possibilità di indicare mansioni che avrebbe potuto ricoprire, spetta al datore di lavoro motivare il mancato riposizionamento.

Se si arriva al contenzioso sul licenziamento?

Se in seguito al ricorso del lavoratore il giudice dichiara illegittimo il licenziamento, il datore di lavoro dovrà applicare la tutela reale o quella obbligatoria.

Nel primo caso sono previsti, in base all’art. 18 della legge 300/1970 (lo Statuto dei Lavoratori), il reintegro nel posto di lavoro e un risarcimento pari alla retribuzione maturata, includendo i contributi dal giorno del licenziamento a quello del reintegro, con un minimo di cinque mensilità.

A seguito delle modifiche all’articolo 18 della riforma del lavoro Monti-Fornero è stata prevista la possibilità di risarcimento senza reintegro nel caso in cui il licenziamento illegittimo sia avvenuto per motivi economici (giustificato motivo oggettivo), previo tentativo di conciliazione obbligatoria.

La riforma prevede anche una discrezionalità (pur limitata) del giudice sull’eventualità del reintegro anche nei casi di licenziamenti disciplinari (per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo): l’alternativa è un’indennità compresa fra le 12 e le 24 mensilità.

Un contratto collettivo prevede di solito determinati episodi che possono condurre al licenziamento per giusta causa:

  • l’insubordinazione nei confronti del capo e il rifiuto, senza dare spiegazioni, di svolgere i propri incarichi;

  • la sottrazione di beni durante lo svolgimento delle proprie attività;

  • il non riprendere il lavoro quando, dopo aver chiesto un permesso per malattia, la visita medica di controllo dichiara il buono stato di salute dell’impiegato;

  • comportamenti penalmente rilevanti, anche al di fuori del lavoro, che facciano perdere la fiducia nel lavoratore;

  • svolgere attività lavorative per conto di terzi, durante un permesso per malattia, che pregiudichino il rientro al lavoro o la guarigione dell’impiegato;

  • comportamenti violenti verso gli altri lavoratori, come le risse;

Il licenziamento

Tutela del lavoratore: reintegrazione o riassunzione

Se il licenziamento viene intimato senza la forma scritta o senza giustificazione, il  giudice lo ritiene illegittimo e lo dichiara inefficace. In questo caso, il datore è soggetto a determinati obblighi verso il lavoratore. La tutela (reale od obbligatoria) accordata al dipendente, licenziato ingiustamente, è diversa a seconda della dimensione dell’azienda.

Quando il giudice del lavoro ordina la reintegrazione?

  • Il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (modificato dalla Legge n. 108/1990) nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori o meno, che occupano:
  •  più di 15 dipendenti (5 se agricoli) in ciascuna unità produttiva: sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, dove è avvenuto il licenziamento;
  • più di 15 dipendenti (5 se  agricoli) nell’ambito dello stesso Comune, anche se ciascuna unità produttiva non raggiunge il limite;
  • più di 60 dipendenti complessivamente se nell’unità produttiva interessata sono occupati meno di 16 dipendenti.

Cosa  è il  risarcimento a Tutela reintegratoria “piena”

Quando si applica:

  • in tutti i casi di nullità del licenziamento, perché discriminatorio oppure comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge;
  • nei casi in cui il licenziamento sia inefficace perché intimato in forma orale.

È bene precisare che essa trova applicazione a prescindere dal numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro ed è prevista anche a favore dei dirigenti.

In tali ipotesi, il giudice, dichiarando nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione.

Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità (non è invece previsto un limite massimo).

Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.

Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità – entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza – di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

QUANDO VIENE APPLICATA QUESTA TUTELA?

Nell’ipotesi  licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra in una delle condotte punibili con sanzione conservativa sulla base del CCNL applicabile;

se invece abbiamo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se il fatto è manifestamente infondato.
Il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno oltreché al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla effettiva reintegrazione.

In questo caso il risarcimento , corrisponde ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione  globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia ci che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.

La legge fissa un  un limite massimo per il risarcimento, che non può in ogni caso superare un importo pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Anche in tal caso, il lavoratore può optare per l’indennità sostitutiva della reintegra.

QUANDO VI E’ L’OBBLIGO DI RIASSUNZIONE ?

L’obbligo di riassunzione del lavoratore invece, previsto dall’art. 2 L. n. 108/1990 (che ha ampliato l’art. 8 della L. 604), viene ordinato dal giudice nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori o meno, che occupano:

  • fino a 15 dipendenti (5 se agricoli) in ciascuna unità produttiva;
  • fino a 60 complessivamente se nell’unità produttiva interessata sono occupati meno di 16 dipendenti.

Giurisprudenza

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 24 ottobre 2012 – 15 gennaio 2013, n. 807

(Presidente De Renzis – Relatore Venuti)

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 20 febbraio 2009, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla società Nencini Laterizi S.p.A. al dipendente K.A., con qualifica di quadro; ha condannato la società a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a corrispondergli le retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra, con gli accessori di legge; ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta dal lavoratore.



Ha osservato la Corte territoriale che dalle risultanze acquisite, ed in particolare dalla prova testimoniale, non erano emersi elementi tali da giustificare il licenziamento, dovendo viceversa ritenersi che la direzione aziendale, superato il periodo di prova, avendo maturato il convincimento della inadeguatezza del dipendente ai compiti assegnatigli, era da tempo alla ricerca di un pretesto per liberarsi di un lavoratore indesiderato.

Il dipendente era stato privato di alcune mansioni; era oggetto di frequenti rilievi da parte dei superiori; gli era stato reiteratamente e pubblicamente richiesto di dimostrare di aver conseguito la laurea in ingegneria, circostanza questa risultante dalla documentazione prodotta dal dipendente all’atto dell’assunzione.

Nella situazione sopra descritta, lo scontro verbale del 15 novembre 2004, avvenuto tra il lavoratore e il suo diretto superiore, appariva come una comprensibile, seppure censurabile, reazione del primo all’attività di provocazione posta in essere dalla direzione aziendale in suo danno ed in particolare dal predetto superiore.

Quanto alla domanda di risarcimento dei danni, la Corte d’appello rilevava che le prove acquisite non avevano dimostrato la gravità del demansionamento né tanto meno le vessazioni che il lavoratore aveva posto a fondamento di detta domanda.

Per la riforma di tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società, sulla base di un solo motivo.

Resiste il lavoratore, proponendo ricorso incidentale in relazione alle domande risarcitorie non accolte. La società ha depositato controricorso al ricorso incidentale.

Motivi della decisione

1. I ricorsi, principale ed incidentale, in quanto proposti avverso la stessa sentenza devono essere riuniti (art. 335 c.p.c.).

2. Con l’unico motivo del ricorso la società ricorrente denunzia omessa e/o insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.).

Deduce che la Corte territoriale:

- non ha indicato le ragioni che l’hanno indotta a ritenere che i comportamenti posti in essere dalla società erano preordinati all’allontanamento del lavoratore dall’azienda;

  • 

- non ha valutato adeguatamente l’episodio verificatosi nell’aprile del 2004 e il grave errore di valutazione commesso in quella circostanza dal dipendente: questi, intervenuto per fronteggiare una fuoriuscita di fumo da un impianto, aveva azionato per errore una valvola che riguardava un diverso impianto, provocando un tardivo blocco dello stesso ed il verificarsi di un getto di vapore che aveva procurato ustioni al viso ad un suo superiore;
  • – non ha considerato il rifiuto reiterato ed immotivato da parte del dipendente di esibire, a seguito di tale incidente, il titolo accademico conseguito;

- ha valutato parzialmente il contenuto delle registrazioni effettuate dal dipendente nel corso dei colloqui avuti con il superiore suddetto, traendone conseguenze non rispondenti alla reale entità dei fatti;
  • – ha erroneamente ritenuto che le frasi ingiuriose pronunciate dal ricorrente nei confronti del suo diretto superiore nel corso della discussione avvenuta nel novembre 2004 non fossero tali da giustificare la sanzione espulsiva, mentre in realtà si era trattato di un comportamento idoneo a ledere il rapporto fiduciario, dovendo peraltro escludersi che l’azienda avesse tenuto nei confronti del lavoratore una attività di provocazione.

3. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2103 c.c. (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.), nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.), si censura la sentenza impugnata per avere rigettato la domanda relativa al danno professionale conseguente al demansionamento, nonché quelle relative al danno biologico, esistenziale e alla dignità morale.

Rileva il ricorrente incidentale che dalla prova testimoniale espletata in primo grado è emerso il demansionamento operato dall’azienda nei suoi confronti nonché un disegno consapevolmente persecutorio, che gli hanno procurato uno stato depressivo reattivo, oltre che una lesione della sua dignità.

A fronte di tali elementi, la Corte di merito ha erroneamente rigettato le domande e, pur dando atto che l’azienda aveva posto in essere nei suoi confronti continue pressioni e aperte provocazioni per indurlo alle dimissioni, ha ritenuto che in tali fatti non fossero configurabili vessazioni.

Ciò, ad avviso del ricorrente incidentale, configura una motivazione contraddittoria e comunque insufficiente, nonché una falsa applicazione degli artt. 2087 e 2103 c.c. “per non avere ravvisato demansionamento e violazione dell’obbligo di sicurezza in condotte che viceversa rientrano nel paradigma normativo in questione”.

In relazione alla asserita violazione dei predetti articoli, formula il relativo quesito di diritto.

4. Il ricorso principale non è fondato.

È principio consolidato di questa Corte che in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza (cfr., fra le altre, Cass. 22 giugno 2009 n. 14586; Cass. 26 luglio 2010 n. 17514; Cass. 13 febbraio 2012 n. 2013).



La gravità dell’inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte (Cass. 10 dicembre 2007 n. 25743).

Inoltre va assegnato rilievo all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (Cass. 13 febbraio 2012 n. 2013).

Il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. 25 maggio 2012 n. 8293; Cass. 7 aprile 2011 n. 7948; Cass. 15 novembre 2006 n. 24349).

È stato infine precisato da questa Corte che il controllo sulla congruità e sufficienza della motivazione, consentito dall’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., non deve risolversi in nuovo giudizio di merito attraverso una autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa, risultando ciò estraneo alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (cfr. Cass. 26 luglio 2010 n. 17514; Cass. 23 febbraio 2009 n. 4369; Cass. 10 dicembre 2007 n. 25743; Cass. 7 giugno 2005 n. 11789).

Nella fattispecie in esame la Corte di merito, con motivazione congrua e priva di vizi logici, dopo aver ricostruito i fatti in base alle risultanze della prova testimoniale, li ha valutati nella loro completezza, sul piano oggettivo e soggettivo alla stregua degli elementi concreti emersi, escludendo che fossero tali da giustificare la sanzione espulsiva.

In particolare ha posto in evidenza che il lavoratore non solo veniva frequentemente fatto oggetto di rilievi in ragione della asserita sua inadeguatezza allo svolgimento dei compiti assegnatigli, alcuni dei quali gli furono sottratti, ma ha rimarcato che pubblicamente e reiteratamente gli venne richiesto di dimostrare il titolo di studio (laurea in ingegneria conseguita all’estero) – evidentemente allo scopo di screditarlo nell’ambiente lavorativo -, ancorché tale titolo fosse stato allegato nel curriculum presentato all’atto dell’assunzione.

Da tutto ciò la Corte territoriale ha argomentato che lo scontro verbale con il diretto superiore, avvenuto nel novembre 2004, fu determinato da una comprensibile, seppure censurabile, reazione del lavoratore, determinata dall’atteggiamento ostile tenuto dall’azienda nei suoi confronti, onde non poteva ritenersi giustificata la sanzione espulsiva comminatagli.

La società ricorrente ha evidenziato una supposta imperizia e/o negligenza del lavoratore in occasione di un episodio avvenuto nell’aprile del 2004, in cui il medesimo, intervenuto per fronteggiare una fuoriuscita di fumo da un impianto, ha azionato per errore una valvola che riguardava un diverso impianto, provocando un tardivo blocco dello stesso ed il verificarsi di un getto di vapore che aveva procurato ustioni al viso ad un suo superiore.

Ha poi richiamato delle registrazioni effettuate dal dipendente nel corso di colloqui avuti con lo stesso superiore.

Tali fatti – per quanto è dato rilevare dagli scritti difensivi delle parti -non risultano oggetto di contestazione disciplinare e quindi non rilevano ai fini del presente giudizio.

5. Anche il ricorso incidentale è infondato.

La Corte territoriale, pur motivando succintamente in ordine al rigetto delle domande relative al demansionamento e ai danni, ha tuttavia dato conto delle ragioni del suo convincimento, richiamando le prove acquisite ed in particolare le deposizioni dei testi escussi.

Ha rilevato al riguardo che, seppure dalle dichiarazioni di tali testi era emerso uno stato di tensione e di disagio per il dipendente nell’ambiente lavorativo, tuttavia, anche per il circoscritto periodo oggetto di prova e la scarsa rilevanza dei fatti emersi, non poteva configurarsi il dedotto demansionamento né tanto meno erano ravvisabili “vessazioni”.

La motivazione appare coerente e non contraddittoria con quanto in precedenza sostenuto dalla stessa Corte, e cioè che l’azienda aveva posto in essere nei confronti del lavoratore provocazioni e pressioni al fine di indurlo alle dimissioni.

Un conto, infatti, è essere provocato o subire sollecitazioni al fine anzidetto, altro conto è ricevere vessazioni, e cioè angherie, soprusi e sopraffazioni, elementi questi che possono integrare la fattispecie del mobbing nel concorso degli altri elementi richiesti.

Quanto poi alla dedotta violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.), non è dato cogliere il senso della censura dal momento che il ricorrente incidentale non ha fornito ulteriori precisazioni o chiarimenti in merito.

Il ricorso incidentale deve pertanto essere respinto.

6. Vanno compensate tra le parti le spese presente giudizio, avuto riguardo al rigetto di entrambi i ricorsi.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese tra le parti.

 

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