Ai sensi dellaL. n. 898 del 1970, predetto art. 9(così come modificato dallaL. n. 436 del 1978, art. 2e dellaL. n. 74 del 1987, art. 13), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata rebus sic stantibus, rimanendo, cioè, suscettibili di modifica, quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti passati e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile (cfr.Cass. n. 2953 del 2017, richiamata, in motivazione, dalle più recentiCass. n. 4768 del 2018e Cass. n. 11177 del 2019). Il provvedimento di revisione dell’assegno divorzile o di quello di mantenimento dei figli, previsto dalla citata norma, postula, quindi, non soltanto l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma anche la sua idoneità a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo di uno dei predetti assegni, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche di entrambe le parti (cfr.Cass. n. 1761 del 2008, in motivazione). Pertanto, come ancora recentemente ribadito daCass. n. 32529 del 2018, ‘in ordine alla domanda concernente la revisione del contributo al mantenimento dei figli, sia minorenni che maggiorenni non economicamente autosufficienti, proposta in base alla menzionata norma, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o dell’entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti valutate al momento della pronuncia del divorzio, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale (Cass. n. 214 del 11/01/2016,n. 14143 del 20/06/2014). Ciò in quanto i ‘giustificati motivi’, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di divorzio dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati, con la conseguenza che esulano da tale oggetto i fatti preesistenti, ancorchè non presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo (cfr. in propositoCass. n. 28436 del 28/11/2017, pronunciata in relazione revisione degli oneri conseguenti a separazione giudiziale)…’.
Quanto all’art. 337-septies c.c., introdotto dalD.Lgs. n. 154 del 2013, ed in vigore dal 7 febbraio 2014 unitamente all’intero Titolo IX (Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio), capo II (Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio, ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio) del Libro primo del menzionato codice, esso dispone, al comma 1, che il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto. Trattasi, evidentemente, di norma da leggersi tenendo conto anche di quanto sancito dall’art. 147 c.c.(nel testo, qui applicabile ratione temporis, risultante dalla modifica apportatagli dal D.Lgs. predetto), a tenore del quale il matrimonio impone ad entrambi i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’art. 315-bis c.c.e da quest’ultima disposizione, il cui comma 1 prevede che il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni e delle sue aspirazioni. Fin da ora, peraltro, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità ormai consolidatasi: i) ‘l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. Ne consegue che, in tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, iure proprio (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne’ (cfr.Cass. n. 32529 del 2018; Cass. n. 9698 del 2001; Cass. n. 1353 del 1999); ii) ‘il diritto del coniuge separato di ottenere un assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne convivente è da escludere quando quest’ultimo abbia iniziato ad espletare un’attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di una adeguata capacità e determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento ad opera del genitore, sicchè l’eventuale perdita dell’occupazione o il negativo andamento della stessa non comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento’ (cfr.Cass. n. 6509 del 2017; Cass. n. 26259 del 2005); iii) ‘la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa nonchè, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, dal raggiungimento della maggiore età, da parte dell’avente diritto’ (cfr.Cass. n. 5088 del 2018;Cass. n. 12952 del 2016).
SEPARAZIONE CONIUGI BOLOGNA
Circa, invece, l’adozione di persona maggiore di età, detta anche adozione ordinaria o civile, oggi disciplinata agliartt. 291 c.c.e segg., essa ha subito, nel tempo, numerosi interventi riformatori, dovuti in larga parte all’evolversi della coscienza sociale in ambito lato sensu ‘familiare’.
Invero, secondo l’insegnamento tradizionale, l’istituto dell’adozione rispose ad una funzione squisitamente privatistica consistente nel soddisfare l’interesse dell’adottante alla trasmissione del nome e del patrimonio, mediante la creazione di un vincolo di filiazione artificiale. In considerazione di tali finalità patrimoniali e successorie, l’istituto fu introdotto nel Code civil francese del 1804 e, per gli stessi fini, recepito dal codice civile unitario del 1865, dove fu riservato ai maggiori di diciotto anni (che tuttavia allora non erano ancora maggiorenni, poichè la maggiore età si raggiungeva a ventuno anni). Certo già allora non poteva ignorarsi la valenza personalistica dell’adozione, sia con riguardo all’interesse dell’adottante, rispetto al quale essa rappresentava ‘un’invenzione pietosa della legge destinata a colmare un vuoto che una sorte avara ed avversa lascia non di rado nella vita di un uomo’, sia nei confronti dell’adottato, nascendo l’adozione come atto di generosità in virtù del quale si convertiva ‘in dovere un’affezione sino ad allora libera ed indipendente’. Il carattere ‘affettivo’ dell’adozione costituiva, tuttavia, mero movente psicologico, pressochè irrilevante sotto il profilo della disciplina. Alla luce del diritto positivo, invero, essa si configurava alla stregua di un atto di diritto privato volto alla sola devoluzione del nome e del patrimonio. In tali sensi, del resto, opinava anche la dottrina contemporanea al codice del 1865, la quale, valorizzando alcuni profili della disciplina allora vigente (in particolare, l’art. 208, per il quale ‘l’adozione si fa col consenso dell’adottante e dell’adottando’, e l’art. 217, che faceva decorrere gli effetti dell’adozione dal giorno della prestazione del consenso medesimo e non dal successivo atto di omologazione da parte dell’autorità giudiziaria), attribuiva al consenso delle parti l’effetto costitutivo del rapporto adozionale. Proprio in conseguenza della sua natura privatistica, non si determinava l’inserimento dell’adottato nella famiglia dell’adottante, mentre restavano integri i rapporti del primo con la propria famiglia di origine. Stante il carattere patrimoniale dell’istituto, la legge prevedeva, inoltre, una serie di divieti e cautele a tutela degli interessi dei parenti dell’adottante. In tal senso doveva leggersi, principalmente, il divieto di adottare in presenza di propri figli legittimi o legittimati, logica conseguenza della finalità di supplire al difetto di discendenti propria dell’adozione e volto ad evitare che l’istituto si prestasse ad eludere le norme sulla successione necessaria, consentendo di attribuire ad un estraneo una quota maggiore rispetto a quella disponibile. Nella stessa direzione muovevano, poi, il limite minimo di età per adottare, che ancora il legislatore del 1942 fissava al cinquantesimo anno, essendo sensibilmente ridotta a tale data la capacità di procreare; nonchè il divieto di adottare più persone, salvo che ciò avvenisse con il medesimo atto. Stante la natura negoziale attribuita all’istituto, si intendeva con tale ultima previsione precludere ad una delle parti la possibilità di modificare unilateralmente i contenuti del rapporto posto in essere. Confermava, infine, il carattere privatistico dell’istituto la norma che richiedeva l’assenso del coniuge e dei genitori legittimi o naturali dell’adottante e dell’adottando, e che, a parere della dottrina, configurava un atto personalissimo ed irrevocabile, esplicazione di un ‘potere familiare’ volto alla tutela del prevalente interesse della famiglia.
Fu il codice del 1942 ad abbandonare la prospettiva esclusivamente privatistica e ad imprimere una prima, fondamentale svolta in chiave personalistica all’istituto, consentendo l’adozione anche dei minori. Tale mutamento ebbe l’effetto di introdurre nell’istituto un valore nuovo: l’interesse del minore. Anche in virtù del dettato costituzionale, si finì, infatti, con il ritenere detto interesse prevalente rispetto a quello dell’adottante a procurarsi un discendente. Si aprì, così, la strada alle riforme apportate dallaL. 5 maggio 1967, n. 431, che, mentre introduceva l’adozione speciale, modificava la disciplina codicistica dell’adozione ordinaria al fine di piegarla all’assolvimento di una funzione esplicitamente assistenziale. Detti mutamenti determinarono, però, al contempo, un arretramento nella tutela delle ragioni, specie patrimoniali, della famiglia legittima. Così, se la riduzione del limite di età per l’adottante a trentacinque o, eccezionalmente, a trent’anni rispondeva essenzialmente allo scopo di dare all’adottato genitori giovani e, nondimeno, dotati del grado di maturità necessaria a compiere una scelta responsabile, di fatto essa fece venir meno l’originaria funzione dell’adozione, di sopperire alla mancanza di una propria discendenza, non potendosi più escludere una futura filiazione da parte dell’adottante. Lo stesso interesse patrimoniale dell’adottato venne subordinato alla preminente funzione assistenziale, allorchè si consentì a che l’adozione fosse disposta nei confronti di più persone anche con atti successivi.
Un ulteriore affievolimento della tutela dei membri della famiglia dell’adottante si ebbe, poi, con la legge di riforma del diritto di famiglia del 1975, che rese possibile l’adozione civile anche in assenza dei prescritti assensi, ove il rifiuto fosse apparso ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando, ovvero l’assenso non avesse potuto essere prestato per incapacità o irreperibilità della persona. Un vero e proprio potere di veto rispetto alla decisione adottiva permaneva solo in capo ai genitori esercenti la potestà sull’adottando ed ai coniugi conviventi dell’adottato e dell’adottante. Peraltro, la dottrina osservava come un rifiuto ingiustificato da parte dei genitori avrebbe potuto essere superato mediante una pronuncia di decadenza dalla potestà ai sensi dell’art. 330 c.c., ovviamente ove si fosse ritenuto integrato uno dei fatti previsti dalla norma. Rispetto al coniuge convivente dell’adottante, invece, l’insuperabilità del rifiuto veniva interpretato come conseguenza della mutata funzione dell’adozione, che adesso faceva apparire come naturale l’instaurarsi della convivenza tra adottato minorenne ed adottante, e serviva di conseguenza a garantire da possibili turbamenti ‘l’armonia spirituale della famiglia’ di quest’ultimo.
Le modifiche appena menzionate sono passate pressochè indenni attraverso la novella del 4 maggio 1983, n. 184. Allo scopo di risolvere le problematiche connesse alla coesistenza di due istituti, l’adozione speciale e quella ordinaria, entrambi applicabili ai minori, il legislatore ha, in questa occasione, confinato l’applicabilità dell’adozione codicistica ai soli maggiorenni. Si è in tal modo voluta restituire all’istituto la funzione patrimoniale per la quale era stato concepito. Ciò ha condotto ad eliminare dal codice quelle disposizioni che avevano piegato l’adozione civile a finalità di carattere assistenziale, in primis la norma attributiva della potestà all’adottante (art. 301). La natura del vincolo instaurato con l’adottato torna, dunque, a connotarsi in chiave essenzialmente patrimoniale giacchè, salva l’assunzione del cognome, esso si limita a far conseguire all’adottato i soli diritti successori ed alimentari. L’adozione cd. ordinaria continua, pertanto, a rispondere, in primo luogo, alla già descritta funzione tradizionalmente accordatale; quantomeno, è proprio in vista di tale funzione che ne sono definiti presupposti, condizioni ed effetti nella disciplina delineata dagliartt. 291 c.c.e segg..
Appare tuttavia innegabile che lo strumento dell’adozione de qua si presti ad essere utilizzato anche con ben altra finalità, almeno in tutti i casi in cui l’adottando, sebbene maggiore di età, sia inserito di fatto in un consorzio familiare, in cui si avverta un’insistente esigenza di assicurare una piena legittimazione, sul piano giuridico, ad una realtà già in atto sul piano dei sentimenti e delle relazioni personali. Si pensi, ad esempio, alla idoneità dell’adozione predetta, ritenuta da parte della dottrina, a ‘dare veste giuridica al rapporto personale ed affettivo che spesso si costituisce tra coniuge e figlio dell’altro coniuge, vedovo o divorziato, o a quello creatosi a seguito di un affidamento (non temporaneo) che si è prolungato ma non può evidentemente proseguire oltre la maggiore età’. E’ proprio alla contrapposizione fra le suesposte esigenze che appare riconducibile l’andamento altalenante degli interventi giurisprudenziali. Laddove all’adozione si attribuisce il ruolo di costituire (ovvero di riconoscere l’esistenza di) una famiglia, giocoforza è il tentativo di assimilare lo strumento delineato nel codice alle forme di adozione dei minori; qualora, invece, l’adozione dei maggiori di età sia confinata entro il ruolo tradizionalmente riconosciutole, non potrà che derivarne un’applicazione rigorosa e restrittiva delle norme codicistiche, giustificata dalla loro autosufficienza e sostanziale estraneità alle problematiche proprie delle situazioni di abbandono dei minori e dei rimedi di volta in volta apprestati dall’ordinamento in funzione di una loro adeguata protezione. Proprio in quest’ottica, del resto, va inquadrato il dibattito che, nel corso degli ultimi decenni, ha visto spesso contrapposte la Corte costituzionale, fedele alla concezione, per così dire, tradizionale dell’istituto dell’adozione di persone maggiori di età, e la Corte di cassazione, la quale, in diverse occasioni, ha sostenuto l’opportunità di un’applicazione meno rigida di tale strumento, evidenziandone piuttosto i punti di contatto che quelli di divergenza rispetto alle forme di adozione dei minori e spingendosi sino al punto di ‘forzare’ la lettera degliartt. 291 c.c. e segg.. Se, dunque, la Consulta ha più volte ribadito la bontà del sistema dell’adozione dei maggiori di età – come risultante dai diversi interventi normativi che si sono sovrapposti alla disciplina dell’adozione originariamente delineata nel codice civile – facendo leva essenzialmente sulla funzione ad essa tipicamente assegnata, la Cassazione ha offerto delle interpretazioni coraggiosamente innovative, spinta dall’esigenza di sostenere l’aspirazione dei privati alla formazione di nuclei familiari stabili e dalla ferma volontà di salvaguardarne l’unità, assumendosi, con ciò, la responsabilità di sconfessare più o meno apertamente le posizioni più prudentemente mantenute dal Giudice delle leggi. Basti pensare alle pronunce attinenti alla derogabilità dei requisiti di età richiesti per procedere all’adozione.
Tanto premesso, questo Collegio intende proseguire in quell’indirizzo interpretativo meno rigido dell’istituto in questione di cui si è detto, nell’intento, appunto, di privilegiarne l’aspirazione (anche) alla formazione di nuclei familiari stabili, soprattutto allorquando l’adottato maggiorenne – come ragionevolmente verificatosi nella odierna fattispecie, alla luce della situazione fattuale, pressochè incontroversa, descritta nel precedente p. 4.1. – sia già inserito, di fatto, in un contesto familiare, in cui si avverta l’esigenza di assicurare una piena legittimazione, sul piano giuridico, ad una realtà già in atto sul piano dei sentimenti e delle relazioni personali.
4.3.1. Tanto, si badi, non per farne derivare il sorgere di obblighi giuridici, tra adottante ed adottato, al di fuori di quanto desumibile dalla specifica disciplina codicistica (cfr. art. 300 c.c., comma 2, che, nell’escludere espressamente soltanto l’insorgere di alcun rapporto civile tra adottante e famiglia dell’adottato, e tra adottato e parenti dell’adottante, salve le eccezioni di legge, evidentemente non disconosce la nascita di analoghi rapporti direttamente tra adottante ed adottato. Si vedano anche l’art. 433 c.c., n. 3, che indica pure gli adottanti tra le persone obbligate a prestare gli alimenti, nonchè l’art. 436 medesimo codice, secondo cui l’adottante deve gli alimenti al figlio adottivo con precedenza sui genitori), ma, quantomeno, al più limitato scopo di attribuire rilevanza alla situazione fattuale da essa determinata come circostanza valutabile laddove il genitore dell’adottato, già tenuto al suo mantenimento, chieda procedersi alla revisione del relativo contributo.
Non si intende, ovviamente, affermare che l’adottante abbia l’obbligo giuridico di contribuire al mantenimento del da lui adottato figlio maggiorenne di colei che, già divorziata, abbia sposato, nè che il padre di colui che poi sia stato adottato non sia più tenuto ad un tale mantenimento: nel primo caso, infatti, mancherebbe la norma impositiva di detto obbligo (non sembrando essa individuabile nel già citatoart. 436 c.c., riguardante il più limitato obbligo agli alimenti, che postula, però, giusta l’art. 438 c.c., comma 1, l’esistenza di uno stato di bisogno, difficilmente ipotizzabile se il padre ottemperi al suo obbligo di mantenimento); nel secondo, invece, ci si troverebbe in aperto contrasto con l’art. 300 c.c., comma 1, a tenore del quale, l’adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia di origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge.
Si vuol dire, invece, che laddove l’adottato maggiorenne si trovi stabilmente inserito, di fatto, nel contesto familiare creatosi per effetto del matrimonio contratto da sua madre con l’adottante, il quale, benchè a tanto non obbligato giuridicamente, comunque provveda continuativamente, e non solo occasionalmente, anche alle sue esigenze e necessità quotidiane, si è in presenza di una circostanza fattuale che, ove sopravvenuta rispetto agli accordi già esistenti tra i suoi genitori circa il suo mantenimento, non può essere sottratta all’esame del giudice eventualmente adito da uno di essi con domanda di revisione delle condizioni di quel mantenimento. Ciò perchè è assolutamente intuitivo che, in una ipotesi come quella appena descritta, l’entità di quest’ultimo ben potrebbe essere variata (se significativamente, o meno, spetterà al giudice accertarlo) per effetto dell’apporto economico comunque fornito anche dall’adottante alle necessità ed ai bisogni dell’adottato.
4.4. Calando, allora, tali affermazioni generali nella vicenda oggi all’esame di questa Corte, va sicuramente ribadito (confermandosi, in parte qua, il decreto impugnato) che M.M. è tuttora tenuto a contribuire al mantenimento delle figlie F.M.E. e D., malgrado la loro maggiore età e l’avvenuta loro adozione da parte di F.P.. In proposito è sufficiente, da un lato, richiamare le già riportate pronunce di legittimità (Cass. n. 32529 del 2018; Cass. n. 9698 del 2001;�Cass. n. 1353 del 1999) secondo cui l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori; dall’altro, rimarcare che, giusta il tenore letterale del provvedimento oggi impugnato, nessuna dimostrazione di eventuali condotte negligenti di F.M.E. e D., quanto alla ricerca di un’occupazione, è stata fornita dall’odierno ricorrente principale, laddove, invece, come si è già riferito, la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa nonchè, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, dal raggiungimento della maggiore età, da parte dell’avente diritto (cfr.�Cass. n. 5088 del 2018;�Cass. n. 12952 del 2016).
4.5. Del resto, il persistere di un siffatto obbligo di contribuzione al mantenimento delle figlie, benchè maggiorenni, nemmeno potrebbe essere escluso per il solo fatto della sopravvenuta loro adozione,�ex art. 291 e ss. c.c., da parte del F., stante il chiarissimo disposto dell’art. 300 c.c., comma 1 (l’adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia di origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge).
4.6. Fermo tutto ciò, è ragionevolmente innegabile che l’entità di un tale mantenimento non possa non tener conto della duplice circostanza fattuale che (i) F.M.E. e D., per effetto dell’adozione fattane da F.P. (peraltro per dare seguito ad una loro espressa richiesta), sono ormai stabilmente inserite nel contesto familiare creatosi per effetto del matrimonio contratto con quest’ultimo dalla loro madre, e che (ii) il F. abbia provveduto continuativamente, e non solo occasionalmente, anche alle loro esigenze e necessità quotidiane: l’attuale entità di detto mantenimento dovuto dal M., quindi, ben potrebbe essere variata per effetto dell’apporto economico comunque fornito anche dall’adottante alle necessità ed ai bisogni dell’adottato.
4.7. Di tanto la corte distrettuale non dimostra di aver avuto reale ed effettiva contezza, non avendo minimamente spiegato le ragioni del suo genericissimo assunto per cui ‘l’intervenuta adozione delle predette ( M.E. e D.. Ndr) da parte di F.P. non ha in alcun modo inciso sulle loro condizioni economiche con riguardo ai loro rapporti con il M.’: affermazione che si rivela apodittica ed affatto equivoca, posto che non è chiaro se, nell’ottica del giudice a quo, la mancata incidenza fosse da ricondursi alla mera interpretazione in chiave strettamente tradizionale dell’istituto dell’adozione del maggiorenne (finalizzato, quindi, solo a soddisfare l’interesse dell’adottante alla trasmissione del nome e del patrimonio, mediante la creazione di un vincolo di filiazione artificiale), oppure agli esiti di un accertamento fattuale comunque effettuato (ed, in tal caso, oggi non ulteriormente sindacabile se non nei ristretti limiti di cui al novellato�art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qui applicabile ratione temporis, risalendo il decreto impugnato al 30 novembre 2017).
4.7.1. Esclusivamente in questi limiti, dunque, può ritenersi sussistente, nella specie, la violazione dell’art. 337-septies c.c., in combinato disposto con laL. n. 898 del 1970, art. 9�(nella parte in cui consente la modifica degli accordi economici degli ex coniugi quanto al mantenimento dei figli, ove sopravvengano significativi fatti nuovi) e della disciplina dell’adozione del maggiore di età�(artt. 291 c.c.�e segg.) da interpretarsi, appunto, nel meno rigido modo di cui si è ampiamente detto in precedenza, attribuendo ad essa il ruolo di favorire la costituzione (ovvero di riconoscere l’esistenza di) una famiglia
Ha proposto appello M.A. deducendo che dalle indagini patrimoniali è emerso il suo stato di disoccupazione e la mancanza di qualsiasi reddito e, per altro verso, che le sue gravi condizioni di salute compromettono la sua capacità lavorativa. Ha chiesto pertanto che sia revocato il suo obbligo di contribuzione al mantenimento dei figli Separazione obbligo di contribuire ai figli
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 11 luglio – 24 settembre 2014, n. 20145 Separazione obbligo di contribuire ai figli
Presidente Di Palma – Relatore Bisogni
1. Il Tribunale di Viterbo, dopo aver pronunciato con sentenza non definitiva la separazione personale dei coniugi M.A. e M.V., addebitandola ad entrambi, con successiva sentenza del 13 luglio 2008, all’esito di consulenza psicologica e accertamenti patrimoniali a mezzo della Polizia tributaria, ha affidato alla madre i due figli Mario e Sofia, nati rispettivamente nel 2000 e nel 2001, disciplinando le modalità di visita del padre, e ha posto a carico di quest’ultimo l’obbligo di versare la somma di 400 euro mensili per il mantenimento dei figli nonché il 50% delle spese scolastiche e mediche di carattere straordinario.
2. Ha proposto appello M.A. deducendo che dalle indagini patrimoniali è emerso il suo stato di disoccupazione e la mancanza di qualsiasi reddito e, per altro verso, che le sue gravi condizioni di salute compromettono la sua capacità lavorativa. Ha chiesto pertanto che sia revocato il suo obbligo di contribuzione al mantenimento dei figli.
3. Si è costituita Michela V. e ha contestato le affermazioni dell’appellante relative alla mancanza di qualsiasi reddito rilevando che nel 2001 egli si è dimesso dalla sua attività di dipendente RAI senza più impegnarsi in una attività lavorativa stabile ma svolgendo lavori saltuari come venditore in mercati domenicali, nel settore della compravendita di macchine usate e nella ristorazione. Ha dedotto inoltre che dal 2004 né M.A. né i suoi genitori hanno contribuito al mantenimento dei figli Mario e Sofia nonostante la V. non disponga di una attività lavorativa stabile e sia costretta a vivere con 1 genitori che la sostengono economicamente.
4. La Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado rilevando l’inattendibilità delle deduzioni dell’A. circa una totale assenza di redditi e ritenendo ingiustificato l’impedimento allo svolgimento di attività lavorative, sia in relazione alla sua giovane età (M.A. è nato nel 1970) sia in relazione alle documentate condizioni di salute che non attestano invalidità fisiche incompatibili con qualsiasi attività lavorativa.
5. Ricorre per cassazione M.A. deducendo: a) nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 secondo comma n. 4 c.p.c., dell’art. 118 disp. att. c.p.c., degli artt. 156 e 161 c.p.c. e del principio del giusto processo relativo all’obbligo del giudice di motivare in maniera adeguata la sentenza; b) nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e per omessa o insufficiente motivazione circa le sue condizioni di salute ampiamente documentate e che pregiudicano completamente l’idoneità al lavoro; c) nullità della sentenza per erronea applicazione nel giudizio di appello dell’art. 115, primo comma, e 183 c.p.c. e per violazione dell’art. 345 C.P.C.
6. Non svolge difese la V… Ritenuto che:
7. XI secondo motivo di ricorso appare fondato dato che l’esclusione di una incidenza delle condizioni di salute sulla capacità lavorativa del ricorrente si basa su una motivazione del tutto apodittica che non prende in esame la documentazione prodotta eventualmente valutando anche l’opportunità dello svolgimento di una consulenza medico-legale.
B. Sussistono pertanto i presupposti per la trattazione della controversia in camera di consiglio e se l’impostazione della presente relazione verrà condivisa dal Collegio per l’accoglimento del secondo motivo di ricorso.
La corte, rilevata la irricevibilità dei certificati medici di cui alla nota 1 luglio 2014, e ritenuta condivisibil9 la relazione sopra riportata;
P.Q,M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.
Cosìi deciso in Roma nella camera di consiglio dell’11 luglio 2014. Separazione obbligo di contribuire ai figli
SEPARAZIONE MARITO MOGLIE CONIUGI BOLOGNA EAPPROPRIAZIONE INDEBITA MOBILI “per procurare a se un ingiusto profitto, si appropriava dei mobili facenti parte dell’arredo del salone e della camera da letto della casa coniugale”
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