Si puo’ risolvere una separazione coniugi che pare impossibile a bologna?
Te lo dico chiaro la soluzione molto spesso dipende dalla volonta’ dei clienti delle persone.
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BOLOGNA SAN PIETRO IN CASALE MALALBERGO ALTEDO BUDRIO,CASALECCHIO DI RENO MINERBIO PIANORO PORRETTA
separazione coniugi bologna
Certo la rabbia e l’odio tra due persone che si presume un tempo si siano amate non aiutano una possibilità di soluzione, questo è sicuro!!
ESAMINIAMO I CONFLITTI STUADIAMO LE SOLUZIONI RISOLVERE E’UNA MISSIONE
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ESAMINIAMO LE VARIE SITUAZIONIE PROBLEMATICHE ALLA LUCE DELLE RECENTI SENTENZE CASSAZIONE
CASA CONIUGALE
L’ex coniuge, illegittimamente privato dall’ex moglie del possesso dell’immobile precedentemente destinato a casa coniugale, ha diritto al risarcimento del danno extracontrattuale poiché subisce un concreto pregiudizio di carattere patrimoniale. Premesso che la sentenza di condanna generica al risarcimento del danno non esclude la possibilità di verificare, in sede di liquidazione, la reale esistenza del danno risarcibile (Cass. n. 9043 del 2012), in tema di tutela di possesso ove sia accertato, con sentenza passata in giudicato, l’illecito consistente nell’illegittima privazione del possesso, tale limitazione si traduce in un concreto pregiudizio di carattere patrimoniale, perdurante fino al ripristino dello “status quo ante”. Ne consegue che il giudice, a fronte dell’obiettiva difficoltà di determinazione del “quantum”, deve fare ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., adottando eventualmente, quale adeguato parametro di quantificazione, quello correlato ad una percentuale del valore reddituale dell’immobile, la cui fruibilità sia stata temporaneamente esclusa.
Deve essere risarcito il danno da illegittimo spossessamento della casa coniugale
L’ex coniuge, illegittimamente privato dall’ex moglie del possesso dell’immobile precedentemente destinato a casa coniugale, ha diritto al risarcimento del danno extracontrattuale poiché subisce un concreto pregiudizio di carattere patrimoniale. Premesso che la sentenza di condanna generica al risarcimento del danno non esclude la possibilità di verificare, in sede di liquidazione, la reale esistenza del danno risarcibile (Cass. n. 9043 del 2012), in tema di tutela di possesso ove sia accertato, con sentenza passata in giudicato, l’illecito consistente nell’illegittima privazione del possesso, tale limitazione si traduce in un concreto pregiudizio di carattere patrimoniale, perdurante fino al ripristino dello “status quo ante”. Ne consegue che il giudice, a fronte dell’obiettiva difficoltà di determinazione del “quantum”, deve fare ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., adottando eventualmente, quale adeguato parametro di quantificazione, quello correlato ad una percentuale del valore reddituale dell’immobile, la cui fruibilità sia stata temporaneamente esclusa.
CONVIVENTI DIRITTI, FIGLI CONVIVENTI ,
Nella specie, la Corte di merito ha fatto buon governo dei principi suesposti, facendo discendere la prova dell’esistenza del danno dallo spossessamento del suddetto immobile da parte della L., dalla conseguente indisponibilità e non fruibilità dello stesso da parte del G., che ne aveva provato un assiduo utilizzo anche per ragioni di lavoro, nonchè dalla prova, tramite testimoni, dell’avvenuta locazione da parte della L. della parte di abitazione del cui possesso aveva spogliato il G., nonchè dall’idoneità dell’immobile all’uso abitativo e dalla sua posizione geografica; ha poi quantificato il danno sulla base del valore locativo dell’immobile.
In definitiva, si deve ritenere che la Corte abbia chiaramente indicato quali erano gli elementi di prova che accertavano il danno subito dal G. dall’illegittimo spossessamento dell’immobile.
Cassazione civile sez. VI, 04/12/2018, n.31353
Anche in caso di assegnazione della casa coniugale al coniuge in sede di accordi in tema di separazione personale, non viene meno il profilo della disponibilità del bene in capo al conferente, presupposto della eventuale successiva confisca per equivalente.
Cassazione penale sez. III, 30/10/2018, n.2862
La casa familiare deve essere assegnata tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non autosufficienti a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, per garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate, sicchè è estranea a tale decisione ogni valutazione relativa alla ponderazione tra interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli, ove in tali valutazioni non entrino in gioco le esigenze della prole di rimanere nel quotidiano ambiente domestico, e ciò sia ai sensi del previgente articolo 155 quater c.c., che dell’attuale art. 337 sexies c.c. consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in materia di separazione o divorzio, l’assegnazione della casa familiare, pur avendo riflessi anche economici, particolarmente valorizzati dalla della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6, comma 6, (come sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 11), è finalizzata all’esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, onde, finanche nell’ipotesi in cui l’immobile sia di proprietà comune dei coniugi, la concessione del beneficio in questione resta subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento dei figli minori o della convivenza con figli maggiorenni ma economicamente non autosufficienti (e plurimis, Cass. 7 febbraio 2018, n. 3015; Cass. 18 settembre 2013, n. 21334; Cass. 21 gennaio 2011, n. 1491; Cass. 10 agosto 2007, n. 17643; Cass. 14 maggio 2007, n. 10994; Cass. 22 marzo 2007, n. 6979; Cass. 19 settembre 2006, n. 20256; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1545; Cass. 6 luglio 2004, n. 12309); – che il secondo motivo è, di conseguenza, manifestamente infondato, non trattandosi affatto di circostanze decisive, e neppure sussistendo gli altri requisiti ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nel testo introdotto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134;
affido condiviso-separazioni Bologna
Cassazione civile sez. I, 12/10/2018, n.25604
L’assegnazione della casa familiare spetta al genitore cui vengono affidati i figli
In materia di separazione o divorzio, l’assegnazione della casa familiare, pur avendo riflessi anche economici, è finalizzata all’esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, onde, finanche nell’ipotesi in cui l’immobile sia di proprietà comune dei coniugi, la concessione del beneficio in questione resta subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento dei figli minori o della convivenza con figli maggiorenni ma economicamente non autosufficienti.
AFFIDO FIGLI MINORI
UPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE I CIVILE Sentenza 19 settembre 2019 – 21 gennaio 2020, n. 1191 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente – Dott. ACIERNO Maria – Consigliere – Dott. MARULLI Marco – Consigliere – Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere – Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 25394/2017 proposto da: M.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Ludovisi n. 35, presso lo studio dell’avvocato Massimo Lauro, rappresentato e difeso dall’avvocato Carlo Piazza, giusta procura in calce al ricorso; – ricorrente – contro B.S., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Emanuele Ceraso, giusta procura in calce al controricorso; – controricorrente – contro S.A., nella qualità di curatore speciale delle minori M.A. e M.G., avvocato in proprio; – intimato – avverso la sentenza n. 3490/2017 della Corte d’Appello di Milano, del 25/07/2017; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2019 dal Cons. Dott. Laura Scalia; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Zeno Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione dei motivi n. 19 e 29; udito, per il controricorrente, l’avvocato M., con delega, che si è riportato, insistendo per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo 1. M.A. introduceva dinanzi al Tribunale di Milano giudizio per la separazione personale nei confronti del coniuge, B.S., chiedendo, tra l’altro, e per quanto rileva in questa sede, l’addebito alla moglie, per avere costei instaurato una relazione extraconiugale, l’affidamento delle figlie minori, l’assegnazione della ex casa coniugale, con condanna della prima alla corresponsione a titolo di contributo al mantenimento delle minori della somma di Euro 400,00 mensili. Con distinto ricorso, B.S. chiedeva al Tribunale di Milano di pronunciare la separazione personale con addebito al marito, che accusava di violenze fisiche e psichiche ai danni propri e delle figlie, delle quali chiedeva l’affidamento in via esclusiva ed il collocamento, instando altresì per l’assegnazione della casa coniugale e la condanna del marito al pagamento di un assegno di Euro 2.500,00 e di altro di Euro 1.000,00, rispettivamente, per il mantenimento delle figlie ed il proprio. 2. Con sentenza depositata il (OMISSIS), il Tribunale di Milano dichiarava la separazione personale tra i coniugi, affidava le figlie minori al Comune di Milano, limitava la responsabilità genitoriale alle decisioni di maggior interesse per le figlie, da assumersi dall’Ente affidatario sentiti i genitori a carico dei quali poneva gli eventuali oneri economici nella misura del 50% per ciascuno. Il Tribunale disponeva inoltre il collocamento delle minori presso la madre, riservando all’ente affidatario, previo monitoraggio dell’adeguatezza dell’indicata misura, di valutare la necessità di una diversa soluzione abitativa per le prime compreso il loro collocamento presso il padre o, ancora, quello di tipo protettivo etero-familiare, stabilendo le modalità di visita del padre con possibilità per l’ente affidatario di modifica, secondo il migliore interesse delle figlie, e con incarico all’ente medesimo di avviare o proseguire interventi di supporto socio-educativo o psicologico-psichiatrico per minori e genitori, a sostegno della genitorialità. I giudici di primo grado assegnavano la casa coniugale alla moglie, disponendo un contributo a carico del padre per il mantenimento delle figlie di 1.000,00 Euro mensili oltre al pagamento del 50% delle spese mediche. Venivano poste a carico di entrambi i genitori le spese per il curatore nominato. 3. Avverso l’indicata sentenza proponevano appello B.S. e M.A.. La prima chiedeva l’incremento del contributo per il mantenimento delle figlie fino ad Euro 1.700,00 mensili oltre alla condanna del coniuge all’integrale pagamento delle spese straordinarie ed al proprio mantenimento in misura non inferiore a 500,00 Euro mensili; instava altresì per la revoca delle limitazioni disposte ex art. 333 c.c. dal Tribunale e per l’affido in via esclusiva delle figlie, con condanna del marito ex art. 96 c.p.c. al risarcimento del danno (determinazione di una diversa disciplina delle spese per la curatela e cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive). M.A., previa sospensiva della sentenza di primo grado, chiedeva: di dichiararsi l’abnormità, nullità o inesistenza di una serie di ordinanze adottate e della sentenza e, comunque, di tutti gli atti successivi all’istanza di ricusazione del G.I., Mu.Ro., con rimessione della causa in primo grado o, in subordine, con concessione dei termini di cui all’art. 186 c.p.c., comma 6; l’addebito alla moglie della separazione; l’affido condiviso delle figlie da collocarsi presso il padre; l’assegnazione della ex casa coniugale all’appellante; una diversa regolamentazione delle spese straordinarie. L’appellante chiedeva la condanna della moglie al risarcimento dei danni per l’illiceità della condotta posta in essere ed il disporsi il divieto per il nuovo compagno del coniuge di frequentazione delle figlie. Nel corso del giudizio la Corte territoriale respingeva le istanze di M. dirette ad ottenere una diversa disciplina dei rapporti con le figlie durante il periodo estivo e la modifica delle condizioni di affido e di assegnazione della casa coniugale e, su richiesta della moglie, ordinava al terzo, datore di lavoro del marito, Università degli Studi di Milano, di versare direttamente all’istante l’assegno in favore delle figlie. Con sentenza pubblicata il (OMISSIS) la Corte di appello di Milano, in parziale riforma di quella impugnata, tra l’altro e per quanto qui rileva: affidava le figlie alla madre, collocataria, confermando il regime di limitazione all’esercizio della responsabilità genitoriale; modificava il rapporto tra padre e figlie, diversamente regolamentando il relativo regime di visita; incaricava gli operatori del Comune di Milano di monitorare la situazione delle minori con possibilità di intervenire a limitazione o ad ampliamento degli incontri tra minori, padre e nonni paterni; determinava, incrementandolo, l’assegno di contributo al mantenimento di ciascuna figlia; ordinava al terzo datore di lavoro il pagamento del contributo direttamente alla moglie. 3. Ricorre per la cassazione dell’indicata sentenza M.A. con trentuno motivi di annullamento ai quali resiste con controricorso, illustrato da memoria, B.S.. 4.
Con ordinanza interlocutoria adottata da questa stessa Prima Sezione civile della Corte di cassazione all’esito di adunanza camerale, la causa è stata rimessa all’odierna udienza di discussione. Motivi della decisione Si provvederà a dare partitamente indicazione dei motivi di ricorso all’esito della esposizione di ciascuno dei quali si indicheranno le ragioni di definizione. Siffatta regola di scrutinio resterà derogata per taluni dei motivi che nella ritenuta loro connessione verranno cumulativamente trattati e decisi. Ciò esposto, osserva il Collegio. 1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità processuale della sentenza per vizio relativo alla costituzione del giudice per violazione del principio dell’immutabilità del Collegio (art. 158 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4). Il verbale dell’ultima udienza di discussione e precisazione delle conclusioni dinanzi alla Corte di appello avrebbe riportato una composizione del collegio decidente diversa rispetto a quella indicata nell’intestazione della sentenza, che sarebbe stata quindi adottata da un collegio differente da quello che aveva partecipato all’udienza. Il motivo è infondato. 1.1. La difesa della controricorrente B.S. ha versato in atti copia conforme del verbale di udienza del 31/01/2018 e dell’annotazione in data 20/02/2018 circa l’ordinanza collegiale con cui la Corte di appello di Milano ha dato correzione alla sentenza qui impugnata, la n. 3490/2017, indicando nell’intestazione quale il terzo componente del collegio giudicante quello riportato nel verbale di udienza. 1.2. Resta per l’effetto pienamente applicato il principio affermato da questa Corte di legittimità per il quale, la sentenza, nella cui intestazione risulti il nominativo di un magistrato, non tenuto alla sottoscrizione, diverso da quello indicato nel verbale dell’udienza collegiale di discussione, non è nulla ma deve presumersi affetta da errore materiale, come tale emendabile con la procedura di correzione di cui agli artt. 287 – 288 c.p.c., nel rilievo che detta intestazione è priva di autonoma efficacia probatoria, esaurendosi nella riproduzione dei dati del verbale d’udienza, e che, in difetto di elementi contrari, si devono ritenere coincidenti i magistrati indicati in tale verbale come componenti del collegio giudicante con quelli che in concreto hanno partecipato alla deliberazione della sentenza medesima (Cass. 11/03/2015 n. 4875; Cass. 11/04/2011 n. 8136; SU, 12/03/1999 n. 118). 2. Con il secondo motivo si denuncia la nullità processuale dell’impugnato titolo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e quindi la violazione e falsa applicazione degli artt. 51, 52, 54, 158 e 159 c.p.c., in riferimento agli artt. 25 e 111 Cost. L’intero processo e le sentenze di primo e secondo grado sarebbero state nulle per l’irregolare costituzione del giudice che, in seguito al rigetto dell’istanza di ricusazione proposta dalla parte, avrebbe omesso di riconoscere l’obbligatorietà dell’astensione. Il giudice istruttore di primo grado con ordinanza del 24.11.2014, nel rigettare le eccezioni di nullità sollevate dal M. in merito a precedenti proprie adottate ordinanze ed a quella di ammissione della disposta c.t.u., ravvisando nella memoria difensiva dal ricorrente redatta la configurabilità di un reato procedibile ex officio (violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.), aveva trasmesso per competenza agli uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia l’atto incriminato. All’esito il ricorrente aveva presentato ricorso per ricusazione facendo valere il conflitto di interessi in cui si sarebbe trovato il giudice, ai sensi dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere egli inoltrato una denuncia, non doverosa nei termini di cui all’art. 331 c.p.p., comma 4, e per un reato insussistente, e per l’esistenza, nella descritta fattispecie, di gravi ragioni di convenienza ai sensi dell’art. 51 c.p.c., comma 2, legittimanti la richiesta di autorizzazione all’astensione. Il mancato esercizio della facoltà di astensione avrebbe integrato il reato di abuso di ufficio ex art. 323 c.p.. Sarebbe stata violata la disciplina della ricusazione che erroneamente denegata nella sua applicazione dal giudice competente avrebbe fatto sì che il giudice ricusato fosse esonerato dalla trattazione della causa all’esito della successiva istanza di astensione, autorizzata dal Presidente di sezione. Nell’intervenuta applicazione dell’istituto dell’astensione invece che di quello della ricusazione si sarebbe prodotta: a) una violazione della disciplina costituzionale del giudice precostituito per legge ex art. 54 c.p.c. nella parte in cui è previsto che in caso di accoglimento del ricorso per ricusazione, a disporre la sostituzione del giudice ricusato sia il giudice competente sulla ricusazione; b) la mancata sospensione del processo prevista in caso di ricusazione (art. 52 c.p.c., comma 3); c) la violazione dell’art. 54 c.p.c., comma 4, che attribuisce alle parti l’onere della riassunzione del processo, in tal modo rimettendo alla disponibilità delle prime, e non ai poteri ufficiosi al giudice, la facoltà di proseguire la causa o di estinguerla con lesione, anche, dell’interesse pubblico a favorire una definizione consensuale della controversia. La riattivazione in via ufficiosa del processo dopo la presentazione dell’istanza di ricusazione – a cui si accompagna in via automatica la sospensione del giudizio a mezzo del decreto presidenziale di nomina del nuovo istruttore all’esito dell’autorizzazione all’astensione del precedente, medio tempore intervenuta – avrebbe definito come abnorme l’atto, il successivo processo e le sentenze adottate in primo e secondo grado. 2.1. Il motivo presenta ragioni che sono nel contempo di inammissibilità e di infondatezza. 2.1.1. L’istituto della ricusazione del giudice è strumento attribuito alla parte che venga lesa nel diritto ad un equo processo, ex art. 111 Cost., comma 2, da declinarsi nell’accezione di diritto ad un giudice imparziale, che definito dalle fattispecie tipizzate di cui all’art. 51 c.p.c., comma 1, nn. 1-5, è destinato a tradursi in ragione di nullità del provvedimento impugnato solo ove venga attivato dalla parte e disatteso dal giudice della ricusazione (da ultimo: Cass. 28/01/2019 n. 2270; in precedenza vedi: Cass. 04/06/2008 n. 14807). La ricusazione è rimedio di un pericolo di lesione dell’imparzialità del giudicante che, come tale, deve essere preesistente al processo ed al suo svolgimento e tanto sia che ciò avvenga per posizioni godute che per rapporti personali o per attività svolte dal giudice rispetto alle parti. Restano pertanto estranee alla ricusazione quelle ipotesi che maturino all’interno del processo in ragione di un mal governo delle regole proprie del primo che si imputa dalla parte al giudice per una sorta di parzialità a posteriori disvelata dalla concreta conduzione del processo e tanto salvo che l’anomalia denunciata non sia tale da sovvertire i contenuti propri dell’atto o comunque da disvelare, per uno stretto rapporto di causa ed effetto, che la prima sia stata determinata dalle ragioni di inimicizia. Come da questa Corte di legittimità nel tempo affermato, nel carattere tassativo dei casi di ricusazione del giudice come tali soggetti a stretta interpretazione, la “inimicizia” del ricusato, ai sensi dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 3, non può essere desunta neppure dal contenuto di provvedimenti da lui emessi in altri processi concernenti il ricusante, tranne che le “anomalie” siano tali da non consentire neppure di identificare l’atto come provvedimento giurisdizionale. In ogni caso, poi, il giudice della ricusazione deve comunque accertare che quelle anomalie siano state determinate proprio dalla grave inimicizia del giudice “a quo” nei confronti del ricusante, su cui incombe il correlato onere di allegare fatti e circostanze rivelatrici dell’esistenza di ragioni di avversione o di rancore estranei alla realtà processuale (Cass. SU 22/07/2014 n. 16627; Cass. 24/09/2015 n. 18976). Entrambi gli indicati profili non si configurano nella fattispecie in esame e la prospettiva affermata in ricorso è espressione di una duplice torsione del dato normativo, come costantemente interpretato nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità. Ed infatti, l’atto anomalo” ovverosia, nella fattispecie in esame, la denuncia redatta ex art. 331 c.p.p., comma 4, per un fatto reato a procedibilità ufficiosa, ravvisato dal giudicante, nei termini di cui all’art. 336 c.p., nella memoria difensiva redatta dal ricorrente, avvocato, è: a) innanzitutto, atto interno al processo e non oggetto quindi di un distinto e preesistente procedimento la cui gestione ad opera del medesimo giudicante abbia già rivelato, nella sua anomalia, quella grave inimicizia espressiva del pericolo di lesione dell’imparzialità del giudice nel successivo scrutinato giudizio; b) atto quindi non riconducibile, secondo uno stretto rapporto eziologico, a “pregresse” ragioni di inimicizia tra parte e giudice, nella tassatività delle fattispecie disegnate dall’art. 51 c.p.c. 2.1.2. Come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, poi, là dove venga dedotta la nullità di provvedimenti istruttori e/o interlocutori adottati da un giudice di cui la parte abbia denunciato, nelle forme della ricusazione, la mancanza di imparzialità, la successiva – rispetto all’adozione dei provvedimenti incriminati – sostituzione del primo con altro magistrato, anche ove intervenuta in esito al diverso modello dell’astensione autorizzata ex art. 51 c.p.c., u.c., non lascia spazio a profili di nullità della sentenza pronunciata dal nuovo giudice, nella implicita e presupposta rivalutazione da parte del decidente designato in sostituzione, di ogni provvedimento istruttorio ed interlocutorio del precedente giudicante, al fine di adottare la sentenza impugnata. La inidoneità delle ordinanze comunque motivate a pregiudicare gli esiti della lite ex art. 177 c.p.c., comma 1, perchè sempre revocabili e modificabili dallo stesso giudice che le ha adottate, è principio destinato a valere non solo rispetto al medesimo giudicante che si trovi a definire il giudizio con sentenza, ma anche, e vieppiù, là dove si assista nel corso del giudizio ad una sostituzione del giudice che si trovi a pronunciare sentenza dopo i provvedimenti ordinatori adottati dal precedente. La nullità dei provvedimenti a carattere ordinatorio adottati in corso di giudizio dal giudice in violazione del dovere di terzietà di rilievo costituzionale (art. 111 Cost., comma 2), deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza all’esito dell’esercizio del potere di ricusazione, non è destinata a travolgere la sentenza quale provvedimento conclusivo del processo là dove l’originario istruttore sia stato sostituito da altro giudice che, nell’esercizio del libero convincimento ed in rivalutazione del materiale istruttorio acquisito, pervenga alla decisione. Nella indicata premessa la critica è infondata e resta di difficile individuazione finanche l’interesse della parte alla proposizione del motivo nella novità ed autonomia del processo decisionale del giudice designato in sostituzione del precedente. 2.3. E’ infondata anche l’ulteriore ragione di nullità dedotta nell’articolato motivo di ricorso che vorrebbe la sentenza invalida perchè segnata da una situazione di conflitto di interessi tra il giudice e la parte. Come questa Corte ha avuto occasione di affermare in sede disciplinare (Cass. SU 13/11/2012 n. 19704; più in generale: Cass. SU 27/12/2018 n. 33537), mutuando un principio formatosi nell’esperienza della giurisprudenza penale di legittimità (Cass. pen. 15/03/2013, n. 14457), le ragioni di astensione rimesse alla facoltà del giudicante di astenersi ex art. 51 c.p.c., comma 2, acquistano natura obbligatoria in tutti i casi nei quali sia ravvisabile un interesse proprio del magistrato o di un suo prossimo congiunto e, quindi, quando si realizzi una situazione di conflitto di interessi. L’art. 323 c.p., dettato sull’abuso di ufficio, fonda invero un dovere generale del giudice di astenersi ove sussista un conflitto di interessi sia esso anche solo potenziale perchè violativo del principio di imparzialità cui deve essere improntata l’attività di ogni pubblico ufficiale, a norma dell’art. 97 Cost. sicchè la facoltà di astenersi per gravi ragioni di convenienza è da ritenersi abrogata per incompatibilità e sostituita dal corrispondente obbligo, in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, nel rilievo che la diversa soluzione esporrebbe la norma di cui all’art. 51 c.p.c., comma 2, al dubbio di costituzionalità, per disparità di trattamento rispetto al giudice penale, su cui incombe l’obbligo di astenersi ai sensi dell’art. 36 c.p.p., comma 1, lett. h), e a tutti i dipendenti della P.A., gravati di identico dovere per effetto del D.M. n. 28 novembre 2000, art. 6 (SU n. 19704 cit.). L’avanzamento della soglia di tutela a rilievo pubblicistico della terzietà ed imparzialità del giudice, integrativa di una delle declinazioni di contenuto del cd. giusto processo ex art. 111 Cost., comma 2, destinata ad elevare a violazione anche, e solo, un dubbio di compromissione dei primi, è destinato a valere nell’ipotesi in cui il giudice sia portatore di un interesse proprio o dei propri congiunti; siffatta ipotesi non è ravvisabile nella posizione del giudice che, nei termini di cui all’art. 331 c.p.p., comma 4, abbia denunciato in suo danno la perpetrazione di un reato da una delle parti del giudizio, fattispecie, quest’ultima, nella quale il giudice diviene portatore di un interesse “distinto” da quello della causa. 2.4. Vi è ancora un profilo di nullità del proposto motivo di ricorso che va investigato. Il ricorrente lamenta una “deviazione” dal modello processuale proprio della ricusazione (art. 52 c.p.c.) che sostituito nel suo svolgimento dal diverso istituto dell’astensione facoltativa autorizzata (art. 51 c.p.c., u.c.) avrebbe sacrificato l’automatismo sospensivo del processo, obliterando altresì il momento della riassunzione. Il giudice ricusato con ricorso del 2.12.2014, cui si accompagnava coeva istanza di sospensione del processo ex art. 52 c.p.c., comma 3, delibava della richiesta l’inammissibilità per poi presentare istanza di autorizzazione ad astenersi al Presidente del Tribunale, nell’apprezzata non obbligatorietà dell’astensione. Nella pendenza del procedimento di ricusazione non venivano adottati provvedimenti interinali sino al rigetto dell’istanza di ricusazione con ordinanza del 21.01.2015, a seguito della quale il Presidente di sezione, con provvedimento del 27.01.2015, intervenendo sull’astensione facoltativa dell’originario magistrato, giudice Mu., assegnava il processo ad altro magistrato, giudice Bu.. Anche tale contenuto del motivo si apprezza come infondato; allo stesso non sono estranei, altresì, profili di inammissibilità. La sola proposizione del ricorso per ricusazione non determina “ipso iure” la sospensione del procedimento nè la devoluzione della questione al giudice competente a deciderla, in quanto spetta pur sempre al giudice “a quo” una sommaria delibazione della sua ammissibilità, all’esito della quale, ove risultino “ictu oculi” carenti i requisiti formali di legge per l’ammissibilità dell’istanza, il procedimento può continuare. L’evidente inammissibilità della ricusazione, infatti, pur non potendo impedire la rimessione del ricorso al giudice competente, esclude non di meno l’automatismo dell’effetto sospensivo, risultando in tal guisa contemperate le contrapposte esigenze, sottese all’istituto, di assicurare alle parti l’imparzialità del giudizio nella specifica controversia di cui trattasi e di impedire, nel contempo, l’uso distorto dell’istituto. Tanto è destinato a valere anche in una ipotesi, qual è quella di specie, in cui l’istanza di ricusazione, presentata dopo che il giudice “a quo” ha disposto il rinvio della causa ad un’udienza successiva, venga rigettata con ordinanza di data anteriore a quella della già fissata udienza di rinvio e la trattazione del giudizio può proseguire legittimamente, non registrando alcuna soluzione di legittimità, e senza necessità di un nuovo impulso di parte da coltivarsi mediante un atto di riassunzione (in termini: Cass. 10/03/2006 n. 5236; Cass. 04/12/2014 n. 25709). La mancata sospensione del processo, e con essa la conseguente necessità di riattivarlo, è evidenza che non riesce a dare conto dell’esistenza in capo al ricorrente di un interesse alla proposizione del motivo. Là dove il giudice ricusato abbia delibato come insussistenti i requisiti formali della ricusazione ed il processo non sia stato sospeso ma sia proseguito nel suo svolgimento, la parte che abbia proposto istanza di ricusazione non può dolersi del fatto che la prosecuzione non sia stata effetto di riassunzione, mancata, e quindi che sia stato leso l’interesse delle parti di scegliere se definire la lite ridando impulso al processo o secondo una alternativa e stragiudiziale modalità. La mancata sospensione previa delibazione da parte del giudice “a quo” dei requisiti della ricusazione non realizza una deviazione dal modello tipico dell’istituto, integrando un error in procedendo denunciabile in cassazione, e comunque la sua mancanza non sostiene un interesse specifico e puntuale del ricorrente alla definizione della lite per una scelta stragiudiziale. Poichè l’interesse ad impugnare con il ricorso per cassazione discende dalla possibilità di conseguire, attraverso il richiesto annullamento della sentenza impugnata, un risultato pratico favorevole ed i vizi dell’attività del giudice che possano comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato “error in procedendo”, è necessario che la parte non si limiti a dedurre tale violazione, ma ottemperando al principio di autosufficienza del ricorso a pena di inammissibilità deve specificare quale sarebbe stata la situazione di fatto che si sarebbe realizzata nel caso dell’invocata e corretta osservanza della norma processuale (Cass. 02/02/2018 n. 2626; Cass. 09/07/2014 n. 15676; Cass. 12/09/2011 n. 18635). Nella specie non è stata dedotta la diversa concreta composizione negoziale degli interessi oggetto del giudizio di separazione personale tra coniugi che sarebbe mancata nell’accertamento giudiziale e tanto, pure, nel carattere cedevole della definibilità della separazione in via giudiziale rispetto ad alternative modalità consensuali, sempre attivabili. 3. Con il terzo motivo il ricorrente fa valere la violazione degli artt. 24, 104, 111 Cost.; dell’art. 6 Cedu; del R.D. n. 12 del 1941 sull’Ordinamento giudiziario., art. 42-quater; della L. n. 57 del 2016, art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 e quindi la nullità del processo e della sentenza per la costituzione quale difensore in proprio ex art. 86 c.p.c., in primo e secondo grado, di colei, la controricorrente, che svolgeva le funzioni di magistrato onorario del Tribunale di Milano, nel circondario della Corte di appello di Milano. B.S., g.o.t. del Tribunale di Milano, si sarebbe trovata in una posizione di incompatibilità con l’esercizio dei poteri difensivi, quale avvocato, nell’introdotto processo di separazione personale dal coniuge, perchè celebrato nel circondario della Corte di appello di Milano. La sentenza di appello avrebbe dato conto della stima e delle conoscenze godute dalla prima presso l’ambiente giudiziario di Milano e tanto avrebbe violato, in punto di apparenza, l’imparzialità del giudice del processo. 3.1. Il motivo si espone a plurime ragioni di inammissibilità. 3.1.1. La critica difensiva non si fa carico, nell’osservanza del principio dell’autosufficienza, di allegare di avere tempestivamente dedotto dinanzi ai giudici di merito, che non si pronunciano sul punto, sulla questione ed incorre pertanto nella inammissibilità della censura per sua novità. Per il principio di autosufficienza il ricorrente in cassazione deve allegare l’avvenuta deduzione delle questioni prospettate innanzi al giudice di merito indicando anche in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto e tanto per dar modo a questa Corte di procedere alla verifica “ex actis” della veridicità di tale asserzione prima di ogni suo esame nel merito (ex multis: Cass. 18/10/2013 n. 23675). 3.1.2. Il motivo è altresì inammissibile per genericità là dove è diretto ad individuare una causa di nullità della sentenza che sia stata pronunciata all’esito di un giudizio nel corso del quale una delle parti, avvocato in proprio ex art. 86 c.p.c., abbia svolto il mandato professionale in violazione delle norme ordinamentali che sanciscono l’incompatibilità tra l’esercizio della professione forense e le funzioni di giudice onorario dal primo pure rivestite (R.D. n. 12 del 1941, art. 42-quater). La violazione dedotta è infatti ancipite. 3.1.3. Essa vale invero, ed innanzitutto, a dare conto della tutela apprestata dall’ordinamento all’interesse pubblico alla imparzialità del giudicante che non può all’interno del medesimo circondario svolgere funzioni giudiziarie ed incarichi difensivi professionali. La situazione censurata in ricorso integra, per il segnalato profilo, una ipotesi di ricusabilità del giudice in quanto magistrato onorario che con condotta pregiudizievole della sua imparzialità eserciti la professione nel circondario del Tribunale all’interno del quale svolge funzioni giudiziarie e di eventuale responsabilità disciplinare (R.D. n. 12 del 1941, art. 42-quater, comma 2, per il quale “Gli avvocati ed i praticanti ammessi al patrocinio non possono esercitare la professione forense dinanzi agli uffici giudiziari compresi nel circondario del tribunale presso il quale svolgono le funzioni di giudice onorario e non possono rappresentare o difendere le parti, nelle fasi successive, in procedimenti svoltisi dinanzi ai medesimi uffici”). 3.1.4. Per converso, la medesima situazione dà luogo ad una causa di eventuale responsabilità disciplinare del professionista secondo il proprio differente statuto ordinamentale là dove l’art. 53, comma 2 Codice deontologico, approvato dal Consiglio nazionale forense il 14 aprile 1997, ratione temporis vigente stabilisce che: “Gli avvocati ed i praticanti ammessi al patrocinio non possono esercitare la professione forense dinanzi agli uffici giudiziari compresi nel circondario del tribunale presso il quale svolgono le funzioni di giudice onorario e non possono rappresentare o difendere le parti, nelle fasi successive, in procedimenti svoltisi dinanzi ai medesimi uffici”, vd. Cass. SU 29/05/2017 n. 13456, p. 4 motivazione). 3.1.5. Nè è d’altro canto ipotizzabile per la descritta fattispecie un “dovere”, sollecitato e peraltro neppure precisato in ricorso, in capo ai giudici chiamati a decidere la controversia – il Tribunale, in primo grado, e quindi la Corte di appello di Milano – “di impedire la commissione e reiterazione di un siffatto illecito che incide proprio sulla imparzialità del Giudice” (p. 20 ricorso). Il pregiudizio alla imparzialità dei giudicanti loro derivante in via riflessa dagli apprezzamenti operati nelle sentenze di merito alla figura del legale, conosciuto dai primi quale magistrato onorario del medesimo circondario o distretto, e comunque da un rapporto di “colleganza”, è condotto in ricorso per un percorso non perspicuo, incapace di individuare le ragioni, che si vorrebbero negate, anche ex art. 6 C.E.D.U., ad un equo processo, sub specie della imparzialità del giudice, e di una derivata nullità della sentenza. Il dubbio sulla parzialità dei giudici di primo e secondo grado che hanno deciso la controversia, anche in ragione delle conoscenze di cui avrebbe goduto l’avvocato B. presso l’ambiente giudiziario milanese in cui si era celebrato il processo, definisce, se del caso, una ragione di ricusazione del giudice che, come tale, avrebbe dovuto essere fatta valere previa proposizione della relativa istanza e che, in difetto, non può tradursi in un motivo di nullità della sentenza fatto valere quale motivo di gravame (sul principio consolidato, in termini: Cass. 04/06/2008 n. 14807). Con il motivo, infatti, il ricorrente declina genericamente, e finanche atipicamente, nella tassatività delle relative previsioni (artt. 51 e 52 c.p.c.), una ragione di ricusazione del magistrato decidente non prevista dall’ordinamento. Il motivo è conclusivamente inammissibile. 4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione dell’equo processo e del contraddittorio (artt. 2, 13, 24, 104 e 111 Cost.; artt. 6 Cedu; art. 101 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, agli artt. 2699 e 2700 c.c., artt. 126 e 130 c.p.c. artt. 76 e 97 disp. att. c.p.c. La Corte di merito avrebbe mancato di instaurare il contraddittorio, concedendo termine o rinvio alla difesa, all’udienza del 7.6.2017, sull’ultima relazione dell’ente affidatario, depositata “a sorpresa”, soli otto giorni prima dell’udienza; siffatta relazione, secretata e contenente anche l’ascolto indiretto delle minori non autorizzato, era stata posta d’ufficio a fondamento di ogni statuizione di merito. La Corte territoriale non avrebbe poi riportato a verbale le circostanze riferite dai difensori in udienza – e cioè che il cancelliere non avrebbe reso possibile la visione della relazione – e nel motivare sulla circostanza, svolgendo apprezzamenti sulla genericità della deduzione difensiva, incapace di indicare chi avesse richiesto in Cancelleria la relazione nè quando e quale operatore l’avesse negata, avrebbe posto a fondamento della decisione la scienza privata, in violazione dell’art. 97 disp. att. c.p.c. I motivi sono inammissibili perchè affastellano critiche di contenuto vario, assertivamente poste nell’atto difensivo e non riescono in modo efficace a veicolare la dedotta violazione delle norme a tutela del giusto processo, sub specie del rispetto del contraddittorio. Il carattere processuale e quindi strumentale della violazione lascia non dedotto l’interesse in concreto leso dalla prima. In tema di ricorso per cassazione, la censura concernente la violazione dei “principi regolatori del giusto processo” e cioè delle regole processuali ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, deve avere carattere decisivo, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, deve portare un effettivo pregiudizio a chi la denuncia (Cass. 26/09/2017 n. 22341). Il motivo costruisce la violazione su premesse in fatto che vengono contrastate in sentenza con la quale, per siffatti passaggi, il motivo non si confronta. Nel carattere non contestato della veridicità dei contenuti delle dichiarazioni della relazione riportati in sentenza, la critica resta non concludente rispetto all’effetto voluto. L’ulteriore profilo per il quale il ricorrente fa sostanzialmente valere una omessa pronuncia della Corte di merito sulla richiesta di rinvio per esame della relazione del Comune di Milano, profilo di censura più esattamente ascrivibile ad un vizio motivatorio, e tanto là dove l’impugnata sentenza argomenta, escludendola, sulla circostanza della impossibilità della parte di venire a conoscenza della relazione attraverso il suo esame in cancelleria, per una analitica valutazione del fatto, non si confronta con quest’ultima e reiterando le iniziali censure sortisce l’effetto di un “non motivo” (Cass. 24/09/2018 n. 22478; Cass. 31/08/2015 n. 17330). Valga sul punto la considerazione che la Corte di appello rileva che la relazione è alla stessa pervenuta; che essa era stata posta, da sempre, a disposizione delle parti nel fascicolo di ufficio in cui la madre delle minori aveva potuto trovarla e leggerla; che la difesa del M. non aveva saputo precisare chi si fosse presentato a richiederla e chi del personale della cancelleria l’avesse negata, passaggi, questi, non contestati nella loro veridicità e concludenza dal ricorrente. Nè l’indicata conclusione è superata dalla deduzione difensiva che la gravità della condotta del personale di cancelleria avrebbe imposto un accertamento d’ufficio dell’accaduto e la concessione di un termine al ricorrente per provare la circostanza ex art. 153 c.p.c., comma 2. La deduzione, generica ed eccentrica, non sostiene neppure l’interesse della parte alla sua proposizione e tanto in una piena commistione di piani in cui all’interesse della parte a conoscere i contenuti della relazione del Comune se ne affianca un altro, a rilievo squisitamente pubblicistico, sulle liceità delle condotte della cancelleria che la visione della prima avrebbe denegato. Vero è poi che la richiesta di termine per esame della relazione resta correlata, nelle premesse in fatto del motivo, al solo diniego della cancelleria di far visionare l’atto e non alla insufficienza del tempo, pari ad otto giorni, evidenza che pure verificatasi avrebbe imposto al motivo di correlarsi, per significare della lesione del contraddittorio denunciata, la sua effettività. 6. Con il sesto motivo si deduce la violazione dell’equo processo e del contraddittorio ex artt. 24, 104, 111 Cost.; art. 6 Cedu; art. 101 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte di appello posto d’ufficio a fondamento della decisione, nonchè di interlocutorie statuizioni adottate ex art. 709-ter c.p.c., cinque relazioni dell’ente affidatario, con plurimi ascolti dei minori senza concedere termine a difesa ed attivazione del contraddittorio e travisando altresì la nota di commento depositata dal M. del 15.02.2017 nella parte in cui, i giudici di appello avevano ritenuto che i contenuti delle relazioni non fossero contestati dalla parte e li avevano riportati acriticamente in sentenza. Il motivo è inammissibile ex art. 360-bis c.p.c., n. 2 perchè non provvede a segnalare quali evidenze in fatto, contenute nelle relazioni, abbiano violato la posizione del ricorrente e, comunque – in tal modo mancando, anche, di autosufficienza – ad indicare in quali atti il ricorrente ebbe a denunciare tempestivamente ai giudici di merito la dedotta violazione e tanto al fine di non incorrere nella inammissibilità da “novità” della deduzione dinanzi al giudice di legittimità a cui è preclusa ogni diretta rivisitazione del fatto. Il ricorrente non provvede ad indicare il pregiudizio risentito in ragione dei contenuti della relazione che non contesta nei vari suoi passaggi, non potendo in tal senso valere, perchè generica, la denunciata decisione della Corte di merito di affidare le figlie alla madre, con conseguenti determinazioni in punto di assegnazione della ex casa coniugale e di quantificazione dell’assegno di contributo al mantenimento. 7. Con il settimo motivo si deduce la violazione del diritto di difesa e del contraddittorio ex artt. 2, 13, 24, 104 e 111 Cost.; ex artt. 6 e 8 CEDU, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per l’estromissione del consulente di parte del ricorrente, testimone di quanto avvenuto durante il “Progetto educativo familiare”. Le relazioni dell’ente affidatario sui rapporti tra padre e figlie sarebbero state “illegittime” perchè formatesi dopo l’estromissione del consulente di parte, psicologo, che assisteva agli incontri dell’educatrice del Comune tra padre e figlie presso l’abitazione dei nonni, con conseguente lesione del contraddittorio ed inutilizzabilità delle prime. Il motivo è infondato. La relazione di una educatrice del Comune al quale siano stati affidati i figli minori in un giudizio di separazione personale tra coniugi non integra una relazione di consulenza tecnica di ufficio ed al suo svolgimento non si applica la disciplina della partecipazione alle operazioni peritali del consulente tecnico di parte. La presenza pertanto di un esperto al quale uno o entrambi i genitori, in un giudizio di separazione personale tra coniugi, abbiano affidato l’incarico di seguire gli incontri periodici tra educatrice della struttura pubblica affidataria dei minori, genitori e parenti, in un quadro di sostegno dei nuclei familiari a rischio, L. n. 149 del 2001, ex art. 1, comma 3, di modifica della L. n. 183 del 1984, non equivale alla partecipazione di un consulente tecnico di parte nell’ambito di operazioni peritali demandate ad un consulente di ufficio. L’intervenuto allontanamento dell’esperto nominato dai genitori non si pone quindi in contrasto con il principio del contraddittorio non potendosi assimilare la descritta situazione allo svolgimento di una c.t.u. alle cui operazioni partecipi un consulente della parte. Resta fermo, in ogni caso il principio, che l’eventuale nullità di una consulenza tecnica di ufficio derivante dalla mancata partecipazione a dette operazioni del consulente di parte ha carattere relativo e, conseguentemente, deve essere eccepita, a pena di decadenza, nella prima udienza successiva al deposito della relazione (Cass. 20/02/2003 n. 2589). Si tratta di evidenza di cui non si ha contezza nel ricorso, con conseguente inosservanza del principio di autosufficienza e di allegazione. 8. Con l’ottavo motivo si deduce la violazione degli artt. 24, 104 e 111 Cost.; la violazione dell’art. 6 CEDU; la violazione degli artt. 323, 610, 574, 388, 328, 368 e 595 c.p. e motivazione apparente in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, e quindi la non imparzialità dell’ente affidatario, per non essersi l’operatore dei servizi sociali astenuto, l’integrazione di situazioni di conflitto e l’inutilizzabilità delle relazioni. L’ordinanza presidenziale del (OMISSIS) faceva divieto alla madre di far frequentare le figlie al nuovo compagno incaricando i servizi sociali di vigilare sul rispetto delle prescrizioni; ciò nonostante, la madre avrebbero trascorso l’estate immediatamente successiva, quella del (OMISSIS) facendo frequentare il compagno alle figlie, condotta che avrebbe reiterato l’anno dopo con unilaterale fissazione delle modalità di visita del padre. L’Ente affidatario, designato anche per l’esercizio della responsabilità genitoriale, in sostituzione dei genitori, in applicazione dell’art. 333 c.c., al quale il giudice di primo grado, con delega in bianco, aveva attribuito in sentenza il potere di modificare i giorni di visita, avrebbe violato ed eluso i provvedimenti del Tribunale quanto al divieto di frequentazione delle figlie con il compagno della madre e sovvertito l’intero calendario estivo già stabilito in sentenza. L’assistente sociale, che per l’ente affidatario seguiva la relazione genitori/figlie, avrebbe violato il calendario estivo fissato in sede giudiziale in favore della madre rendendo impossibile ogni visita per il padre rispetto al quale si spingeva a sospendere i rapporti con le figlie su presupposti falsi. Siffatta condotta avrebbe ingenerato per l’operatore sociale l’obbligo di astensione ex art. 323 c.p., per una conclamata situazione di conflitto di interessi da cui sarebbe derivata la nullità delle relazioni redatte, segnatamente quelle del gennaio, aprile e maggio 2016. A dispetto di siffatta cornice di reiterate e documentate contestazioni su condotte e parzialità dell’Ente affidatario, la Corte di merito si sarebbe limitata a riferire i fatti senza spiegarli se non per l’aggiunta, apodittica, che si sarebbe trattato di “operatori terzi”. Il motivo si presta ad una valutazione di inammissibilità perchè offre una lettura dei fatti alternativa a quella contenuta nell’impugnata sentenza rispetto alla quale manca nel confronto. Tanto è a dirsi quanto alla valorizzazione del rapporto padre e figlie contenuto nelle conclusioni dei vari operatori sociali, nella individuazione della “scarsa presenza del padre in casa nei periodi in cui avrebbe dovuto tenere con sè le figlie” e, ancora, della “delega dallo stesso operata delle sue funzioni genitoriali alla propria-madre, spesso in difficoltà a gestire le nipoti”, quale unica causa impediente la relazione genitore e minori, nel pure rilevato “disagio mostrato dalle stesse”e nella “mancanza di comunicazione e trasparenza in ordine alle abitudini di vita del M. e dal contesto svalutante verso la madre in cui le minori -erano costrette a vivere quando stavano con il padre” (p. 6 sentenza). Con l’indicata ratio integrata da una diversa, rispetto a quella dedotta dal ricorrente, sequela di accadimenti, il motivo non dialoga e con il non cogliere della struttura portante del provvedimento la ragione sua propria, esso resta inammissibilmente proposto. Le evidenze fattuali prospettate in ricorso definiscono per vero una differente serie causale che – determinata da una dedotta violazione, anche di rilievo penale, di provvedimenti giudiziali di governo del regime di visita delle figlie minori – è capace di sostenere un alternativo atteggiarsi dei fatti senza offrire però ragione della eziologia delle condotte finali attribuite invece nell’impugnata sentenza al padre e non contestate da questi nella loro obiettività. 9. Con il nono motivo il ricorrente deduce violazione del contraddittorio e dell’equo processo, violazione e falsa applicazione degli artt. 24, 104 e 111 Cost., dell’art. 6 CEDU, dell’art. 12 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, delle “Regole di Pechino” del 29 novembre 1985, della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993; degli artt. 3, 5 e 6 della Convezione Europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 25 gennaio 1996; degli artt. 23 Reg. CE n. 2201/2003; delle Linee guida del Consiglio d’Europa del 17 novembre 2010; dell’art. 147 c.c.; dell’art. 336-bis c.c. in relazione all’art. 360 c.c., comma 1, nn. 3 e 4; l’illiceità ed inutilizzabilità degli ascolti indiretti del minore, non delegati nè verbalizzati nè condotti in contraddittorio. L’ascolto delle minori e, in particolare, l’ultimo, riferito nella relazione “a sorpresa”, secretata, del 29 maggio 2017 avrebbe fondato ogni decisione in punto di affido e di determinazioni patrimoniali e tanto là dove l’ascolto indiretto, senza delega del giudice, è illegittimo per violazione delle norme suindicate e sono inutilizzabili le dichiarazioni delle minori in tal modo acquisite al processo. La censura è inammissibile perchè priva di autosufficienza e specificità. Ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 24/01/2019 n. 2038; Cass. 13/06/2018 n. 15430; Cass. 18/10/2013 n. 23675). 10. Con il decimo motivo si fa valere la violazione del contraddittorio e dell’equo processo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 24, 104, 111 Cost., dell’art. 6 CEDU, dell’art. 12 della convenzione di New York del 20 novembre 1989, delle Regole di Pechino del 29 novembre 1989 (rectius 1985), della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993; degli artt. 3, 5 e 6 della Convezione Europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 25 gennaio 1996; degli artt. 23 Reg. CE n. 2201/2003; delle Linee guida del Consiglio d’Europa del 17 novembre 2010; dell’art. 147 c.c.; dell’art. 336-bis c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4; l’omesso ascolto delle minori. La sentenza di primo grado affermava che le minori erano state sentite in via indiretta, in sede di consulenza tecnica d’ufficio “con verbalizzazione dell’ascolto”; il M. deduce di aver impugnato in appello eccependo, in realtà, l’omesso ascolto; la sentenza di appello rilevava che sarebbe stata ascoltata la figlia A., atteso che all’epoca la più piccola aveva quattro anni. L’ascolto del minore è imperativo che non richiede l’istanza di parte ma che deve essere disposto d’ufficio e verbalizzato al fine di realizzare l’equo processo e quello disposto dal c.t.u. non sarebbe neppure un ascolto “delegato” ma un ascolto indiretto ed illegittimo. 10.1. Il motivo presenta ragioni di inammissibilità e di infondatezza. 10.1.1. Agli atti si ha che in primo grado entrambe le minori erano infradodicenni e che la figlia più piccola tale sia rimasta anche in appello. Per la minore la doglianza del ricorrente è pertanto inammissibile. Il principio di valenza generale destinato a trovare espressione nei vari istituti e rimedi apprestati dall’ordinamento a tutela del minore riconosce al giudice il potere discrezionale di disporne l’ascolto, anche al fine di verificarne la capacità di discernimento, senza dover tuttavia motivare sulle ragioni dell’omessa audizione, salvo che la parte abbia presentato una specifica istanza con cui abbia indicato gli argomenti ed i temi di approfondimento, ex art. 336-bis c.c., comma 2, su cui ritenga necessario l’ascolto del minore (in materia di adozione e per l’indicata lettura: Cass. 07/03/2017 n. 5676). Ciò posto, nessuna istanza risulta avanzata nel senso precisato dal ricorrente, che, piuttosto, invoca, in modo inammissibile sul punto, l’esercizio ufficioso del relativo potere da parte dei giudici di merito. 10.1.2. In ordine poi all’ascolto della figlia A., che aveva raggiunto i dodici anni di età, in via preliminare si ha che, nell’intervenuta nomina di un curatore nel corso del giudizio di primo grado, la legittimazione a far valere l’omesso adempimento, integrativo del diritto del minore ad una libera e consapevole partecipazione al procedimento che lo riguarda, sarebbe spettata al curatore nominato. Tanto rilevato, nel proposto motivo di ricorso per cassazione si denuncia, in ragione del mancato rinvenimento dei relativi verbali, allegati alla disposta c.t.u., l’insussistenza di un ascolto “in senso tecnico”, o “dedicato”, delle figlie minori del ricorrente, in quanto genericamente effettuato nell’ambito di una consulenza tecnica di ufficio, alla presenza di genitori e terzi, con modalità pregiudizievoli della genuinità e libertà della volontà del minore in tal modo raccolta e, quindi, del suo diritto ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nel procedimento che direttamente lo riguarda. Nella deduzione difensiva, la mancanza di delega da parte del Tribunale ai consulenti sarebbe stata disvelata, nella denuncia sul punto portata in appello e ivi rimasta erroneamente risolta, dalla richiesta effettuata ai nominati tecnici di dare conto delle loro valutazioni tecniche, “visitate le parti e le figlie minori” (ordinanza del 12.03.2013 come richiamata a p. 38 del ricorso per cassazione). Fermo il rilevo che l’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino ed, in particolare, in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la L. n. 77 del 2003, nonchè dell’art. 315-bis c.c. (introdotto dalla L. n. 219 del 2012) e degli artt. 336-bis e 337-octies c.c. (inseriti dal D.Lgs. n. 154 del 2013, che ha altresì abrogato l’art. 155-sexies c.c.), sulle modalità di espletamento del mezzo e, segnatamente, la legittimità dell’ascolto cd. indiretto, si osserva. L’art. 336-bis c.c., dettato in materia di ascolto del minore nei procedimenti in cui devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano, al comma 2 stabilisce che l’ascolto possa essere condotto dal giudice anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari, nella ulteriore precisazione che all’ascolto del minore può procedere direttamente il giudice ovvero, su mandato di questi, un consulente o il personale dei servizi sociali. La distinzione operata nella motivazione della sentenza impugnata (p. 4 sentenza ottavo rigo dal basso) tra “colloqui con le parti” e “audizione della sola figlia minore A.”, con la precisazione che, l’altra figlia, ” G. all’epoca aveva solo 4 anni”, dà conto dell’evidenza che i giudici di appello hanno ben potuto riconoscere tra le attività svolte dai nominati esperti (uno psicologo ed uno specialista in neuropsichiatria infantile che hanno operato, nell’apprezzamento della Corte di merito, “con rigore metodologico”) quanto ascrivere all’una piuttosto che all’altra categoria di atti. In materia di ascolto del minore, di almeno dodici anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento, la necessità di una specifica delega del giudice all’esperto nominato per procedere all’espletamento vale a dare conto del rilievo che l’incombente riveste, in quanto diretto a raccogliere le opinioni ed i bisogni effettivi del minore, nel rapporto di strumentalità con il suo diritto alla partecipazione al procedimento che lo riguarda. L’ascolto indiretto del minore operato su delega del giudice da parte dell’esperto nominato per le modalità di cui all’art. 336-bis c.c., comma 2, non è mai questione terminologica, ma di metodo; il relativo incombente resta pertanto soddisfatto non solo ed esclusivamente se vi sia stato l’utilizzo del termine nel conferimento dell’incarico al tecnico nominato ed il richiamo allo stesso nella svolta relazione, ma per le modalità secondo le quali esso sia stato operato. La libera e consapevole partecipazione del minore al procedimento è pertanto rispettata attraverso l’ascolto del primo che può dirsi realizzato in quanto sostenuto dalla professionalità dell’esperto nominato che vi proceda e dall’utilizzo che questi faccia, nella redatta relazione, di categorie nominalistiche destinate a definire, tecnicamente, le attività svolte in esecuzione dell’incarico peritale (così per l’uso stesso del termine “ascolto” nel corpo della svolta relazione di ufficio) senza che l’incombente formale demandato dal giudice possa dirsi, per converso, inosservato solo ed in quanto manchi nel conferimento dell’incarico una espressa delega all’ascolto. E’ in siffatta prospettiva che va intesa la decisione di questa Corte di cassazione per la quale “meri contatti”, non meglio definiti, tra minori ed appartenenti a servizi sociali, non indicativi delle circostanze in cui gli stessi ebbero a maturare, sono violativi del diritto all’ascolto del minore (Cass. 15/05/2013 n. 11687). La genericità dei contatti non è infatti capace di dar conto della scientificità e serietà dell’approccio, significativo della primaria importanza assolta dal mezzo nella valutazione dell’interesse del minore stesso, e, quindi ed in via strumentale, dell’adozione di tutte le cautele atte ad evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti, ivi compresa la facoltà di vietare l’interlocuzione con i genitori e/o con i difensori, nonchè di sentire il minore da solo, o, ancora, di una delega ad un organo più appropriato e professionalmente più attrezzato (Cass. 26/03/2010 n. 7282). Nella ipotesi in esame il ricorrente fa richiamo agli importanti principi che si sono affermati in materia di ascolto del minore in ambito giurisprudenziale e dottrinale senza però denunciare, veicolando così in modo efficace la propria critica, se poi, nel caso di specie, le concrete modalità di ascolto e le interferenze denunciate, anche per la paventata presenza degli adulti, abbiano compromesso, del primo, la libertà di espressione. 11. Con l’undicesimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 24, 104, 111 Cost., dell’art. 6 Cedu, degli artt. 126, 130, 156, 157, 159, 168 e 195 c.c.; la violazione degli artt. 323, 328 e 490 c.p. in relazione all’art. 476 c.p., la violazione dell’art. 11 del Codice della privacy e delle Linee guida adottate dall’Autorità garante con Delib. 26 giugno 2008, n. 46 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4: per omesso deposito e distruzione di atti processuali irripetibili e non rinnovabili (atti processuali, verbale di perizia e dell’ascolto delle minori e prove irripetibili). I consulenti tecnici di ufficio nominati in primo grado non avevano depositato le videoregistrazioni alle quali erano stati autorizzati dal giudice ma le avevano distrutte ex art. 11 legge privacy. Il Tribunale dapprima e poi la Corte di appello avevano ritenuto legittima la distruzione di quelle registrazioni peraltro nella natura “relativa” dell’eccezione senza considerare che quest’ultima era stata sollevata dalla difesa del ricorrente non per far valere “un difetto del contraddittorio nello svolgimento delle operazioni peritali, bensì la negazione del diritto di difesa del ricorrente, quale parte cui è stato impedito di provare le carenze materne di svolgere le proprie contestazioni alla c. t. u., dopo il deposito della relazione e a causa dell’omessa produzione delle videoregistrazioni”. Di contro quanto ritenuto dai giudici di merito, e giustificato dai cc.tt.uu., i dati raccolti in ambito giudiziario ai fini di giustizia devono essere conservati fino a quando “è necessario al perseguimento degli scopi per i quali sono stati raccolti o successivamente trattati” (art. 11, lett. e) cit. in relazione all’art. 13, comma 5, lett. b) L. cit.). Il giudice di primo grado aveva ordinato il deposito delle videoregistrazioni e la successiva loro distruzione da parte dei nominati tecnici. L’apprezzamento dell’attività operato dai giudici di merito in applicazione della normativa sulla privacy (Delib. Garante della privacy n. 46 del 2008 riportata nella sentenza di primo grado e condivisa dai giudici di appello) – per la quale i dati acquisiti dai tecnici strumentali agli accertamenti delegati nel corso dell’espletamento delle indagini, in applicazione di quanto previsto dall’art. 11, lett. e) Codice della privacy, non possono essere conservati per un tempo superiore a quello necessario per il perseguimento degli scopi per cui sono stati acquisiti, tempo da identificarsi con la conclusione dell’incarico peritale ed il deposito della relazione – avrebbe realizzato un ribaltamento del rapporto tra privacy e diritto ad un giusto processo, declinato come diritto al contraddittorio. Ed infatti la nullità della consulenza per distruzione di un atto irripetibile e non ricostruibile su cui essa era fondata avrebbe inficiato anche le sentenze di merito in ordine all’ivi espresso giudizio sulla capacità genitoriale nel rispetto dei principi dell’equo processo. Il motivo è inammissibile. La consulenza è stata depositata il 9.10.13 e le richieste del ricorrente ai cc.tt.uu. di consegna e deposito di copia del compact disk contenente le video registrazioni assunte nel corso delle operazioni peritali sono del 21 gennaio, 24 febbraio e 4 aprile 2014 là dove solo con la memoria in data 17.11.2014 il ricorrente eccepiva la nullità della c.t.u. nella denunciata indisponibilità del supporto informatico. Come correttamente ritenuto dai giudici di merito, le nullità della consulenza hanno carattere relativo e vanno eccepite nella prima udienza successiva al deposito (Cass. 5422/2002; Cass. 2251/2013), termine rimasto inosservato nella fattispecie in esame per l’indicata sequenza di attività e rilievi di parte. Ed infatti per la denunciata violazione quanto viene in considerazione è la nullità della disposta consulenza tecnica di ufficio perchè violativa del diritto alla difesa. Essa, come tale trattata nella impugnata sentenza, resta pienamente sostenuta dalla motivazione della Corte di merito là dove si valorizza la piena partecipazione delle parti, a mezzo dei propri consulenti, all’indagine tecnica di ufficio con conseguente contemperamento del diritto alla privacy, da un canto, e del rispetto della regola del contraddittorio che presiede allo svolgimento del processo, dall’altro. In tema di protezione dei dati personali, non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale giacchè detta disciplina non trova applicazione in via generale per il D.Lgs. n. 193 del 2003 (cd. codice della privacy), quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo. Là dove le esigenze di tutela della riservatezza e di regolare svolgimento del processo non siano coincidenti, sarà il codice di rito a disciplinare le modalità di esercizio del diritto di difesa nel processo e, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e, benchè anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della privacy (Cass. 08/02/2011 n. 3034; in siffatta prospettiva, si vedano, ancora, tra le altre: Cass. 02/08/2012 n. 13914; Cass. 20/09/2013 n. 21612; Cass. 10/05/2018 n. 11322). L’indicato principio, saldo nella affermazioni di principio di questa Corte di legittimità, vuole che ove il diritto alla privacy venga fatto valere all’interno del processo, esso entra in bilanciamento con le regole proprie del primo e, tra esse, in principalità, con il diritto di difesa ed al contraddittorio per un’opera di contemperamento che resta affidata all’attività del giudice. Quando in un giudizio avente ad oggetto l’affido di un minore e/o la definizione delle modalità di visita da parte del genitore non collocatario si contesti la distruzione, effettuata nel rispetto della normativa sulla privacy dal nominato c.t.u., dei verbali di ascolto del minore – adempimento curato per termini rispettosi della libera determinazione del primo e della spontanea espressione della sua volontà – in ragione della dedotta violazione del principio di difesa e del contraddittorio, il giudizio di bilanciamento dei contrapposti interessi che il giudice è tenuto ad effettuare resta soddisfatto in ragione della valorizzazione delle modalità attraverso le quali l’indagine tecnica è stata svolta. Varranno, segnatamente, gli apprezzamenti svolti dal giudice del merito: sulla partecipazione dei tecnici di parte a tutte le operazioni peritali; sulla sottoposizione al tecnico di parte degli esiti degli accertamenti disposti dal consulente di ufficio e la conseguente formulazione delle osservazioni di parte sulle quali si è espresso il tecnico di ufficio; il tutto per una valorizzata ampia e condivisa metodologia di indagine tra tecnici di parte e d’ufficio. Siffatta ratio spesa nell’impugnata sentenza di appello sostiene, correttamente, il rigetto della deduzione difensiva portata nel grado e, d’altra parte, essa stessa non colta con il ricorso per cassazione sortisce l’effetto di definire di quest’ultimo una ragione di inammissibilità. Ogni altra censura finalizzata a porre in discussione nel giudizio di legittimità il merito stesso della decisione resta, come tale, anch’essa, non sindacabile in cassazione; è assorbito ogni ulteriore dedotto profilo di censura. 12. Con il dodicesimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 24, 104, 111 Cost., dell’art. 6 Cedu, degli artt. 51 e 52 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, e quindi il conflitto di interessi del g.i. Mu.Ro. e la nullità dell’ordinanza in data 24.11.2014 e del processo. Il motivo è assorbito da quanto ritenuto da questa Corte di legittimità supra sub n. 2. 13. Con il tredicesimo motivo si fa valere violazione e falsa applicazione degli artt. 51, 52, 54, 99, 112, 158 e 159 c.p.c. in riferimento agli artt. 2, 13, 24, 25 e 111 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e quindi nullità del processo e delle sentenze di primo e secondo grado per la riattivazione di ufficio del processo sospeso. Dopo il rigetto della ricusazione e l’autorizzazione ad astenersi concessa dal Presidente di sezione al giudice istruttore, il Presidente avrebbe attivato in modo abnorme, d’ufficio e senza riassunzione ad opera delle parti, il giudizio provvedendo a designare il nuovo istruttore in sostituzione di quello astenutosi. Il nuovo magistrato aveva confermato, implicitamente, con provvedimento in data 29.1.2015 l’ordinanza di concessione dei termini ex art. 183 c.p.c., comma 6, emessa dal precedente istruttore il 24.11.2014 ed in sede di sentenza si esprimeva la legittimità della riattivazione d’ufficio del processo per separazione personale in ragione dei principi dell’equo processo e dei poteri ufficiosi del giudice della separazione in materia di minori, motivazione poi condivisa dai giudici di appello. All’esito dell’istanza di ricusazione il procedimento, salve l’ipotesi enucleata dalla giurisprudenza di reiterate e strumentali istanze dichiarate come tali inammissibili, è in via automatica sospeso e nulli tutti gli atti processuali successivi ad una riattivazione operata in modo abnorme ex officio dal giudice (nella specie, per nomina del nuovo istruttore all’esito dell’astensione, medio tempore proposta ed accolta, da parte del competente Presidente). Il rispetto della riassunzione per iniziativa delle parti avrebbe tutelato l’effetto potenzialmente deflattivo della conflittualità che a siffatta modalità di riattivazione del processo si sarebbe accompagnato, non ne avrebbe compromesso la durata, tutelando l’interesse pubblico diretto ad una regolazione consensuale della materia. Il motivo resta assorbito dalle ragioni scrutinate supra sub n. 2. 14. Con il quattordicesimo motivo si deduce violazione del diritto di difesa e del contraddittorio; degli artt. 152, 156, 157, 159 c.p.c. e art. 183 c.p.c., comma 6, nn. 1, 2 e 3 e dell’art. 354 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4; violazione del principio dell’affidamento e di ragionevolezza; nullità del processo e della sentenza per la riduzione dei termini perentori ex art. 183 c.p.c., comma 6. In seguito all’introdotto procedimento di ricusazione i termini avrebbero dovuto essere concessi a far data dal rigetto, ragione per la quale il ricorrente formulava istanza di proroga degli originari, domanda su cui non pronunciava il Tribunale nell’ordinanza istruttoria e quindi in sentenza e successivamente la Corte di merito nell’impugnata sentenza. Una ragionevole interpretazione della normativa processuale con il principio del giusto processo avrebbe imposto il ricalcolo dei termini e la loro proroga con violazione del diritto di difesa. Il motivo è inammissibile ex art. 360-bis c.p.c., n. 2 mancando del carattere della decisività della violazione denunciata. In tema di ricorso per cassazione, la censura concernente la violazione dei “principi regolatori del giusto processo” e cioè delle regole processuali ex art. 360 c.p.c., n. 4, deve avere carattere decisivo, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denuncia (Cass. 26/09/2017 n. 22341). 15. Con il quindicesimo motivo si deduce violazione del diritto di difesa e del contraddittorio, la violazione degli artt. 737, 738, 742-bis c.p.c., la violazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte di merito ritenuto l’inammissibilità dei documenti depositati in appello dal ricorrente perchè relativi a circostanze non sopravvenute là dove nel rito camerale ex art. 737 c.p.c., per giurisprudenza consolidata, l’allegazione dei documenti può intervenire anche oltre i termini fissati purchè la controparte sia messa nella condizione di interloquire. Alcuni dei documenti sarebbero stati sopravvenuti. I documenti sarebbero stati ammissibili e rilevanti in ordine alla situazione economica delle parti, l’addebito e le statuizioni sulle figlie. Con violazione del principio di uguaglianza i documenti versati dalla moglie in appello sarebbero stati tutti ritenuti ammissibili anche se alcuni chiaramente non sopravvenuti. Il motivo è inammissibile. Fermo il principio per il quale nel rito camerale d’appello l’acquisizione dei nuovi mezzi di prova, e segnatamente di nuovi documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, che costituisce esigenza irrinunziabile anche nei procedimenti camerali (arg. ex Cass. n. 11319 del 27/05/2005; id., n. 5876 del 13/04/2012), la dedotta questione in quanto relativa alla violazione del contraddittorio è inammissibile perchè non evidenzia in alcun modo quale pregiudizio la violazione denunciata avrebbe arrecato alla parte. 16. Con il sedicesimo motivo si fa valere la violazione degli artt. 2, 13, 24, 32, 104 e 111 Cost.; degli artt. 6 e 8 CEDU in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 e quindi l’illegittimità e l’inutilizzabilità dei trattamenti sanitari coatti incostituzionali. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza e novità. In tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacchè i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili di ufficio (ex multis: Cass. 09/08/2018 n. 20694). 17. Con il diciassettesimo motivo si deduce la violazione degli artt. 2, 13, 24, 29, 30. 104, 111 Cost.; degli artt. 6 e 8 CEDU; degli artt. 2907, 337-bis, ter e quater c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4; l’illegittimità della delega in bianco sine die ai Servizi Sociali del Comune di Milano riguardo la sospensione e la limitazione delle frequentazioni tra figlie, padre e nonni paterni. La sentenza di primo grado delegava l’ente affidatario a modificare gli incontri tra figlie e padre. La Corte di appello in sentenza avrebbe delegato in bianco e sine die ogni potere sulla relazione tra figlie, padre e nonni paterni, incidendo sul diritto alla bigenitorialità, all’ente che avrebbe “manipolato” e “sovvertito” l’intero calendario estivo delle visite paterne rendendo al padre impossibile rispettarlo per poi motivare da detto inadempimento al fine di adottare ogni decisione riguardo le figlie. La delega operata in sentenza (dispositivo punto n. 4) sarebbe stato un atto abnorme attribuendo la funzione giurisdizionale all’ente pubblico in contrasto con il principio della separazione dei poteri, con le libertà fondamentali e con la riserva di legge. Il motivo è infondato. Il servizio sociale, investito dal giudice del merito dei poteri di indagine necessari al fine di individuare il regime di affido più favorevole ai minori e di monitorare a tal fine la famiglia di origine per modificare quel regime ove non più rispondente alle esigenze del minore, non si sostituisce al giudice nella funzione giurisdizionale ex art. 337-ter c.c., comma 2, trovandosi piuttosto ad operare sotto la direzione dell’autorità giudiziaria e restando inalterata la possibilità del ricorrente di rivolgersi all’indicato fine anche al giudice. Il denunciato dispositivo non può leggersi, come invece dedotto in ricorso, in deroga ad un siffatto fisiologico suo contenuto, quale ipotesi integrativa di una abnorme “delega in bianco” di funzioni giurisdizionali ad un organo amministrativo. L’esigenza di monitorare in continuità le condotte dei genitori, nella loro interlocuzione con i bisogni dei minori, sostiene la scelta operata dai giudici di merito di attribuire all’Ente pubblico la necessaria verifica non mediata dal ricorso al giudice la cui possibilità, sempre esercitabile dalle parti interessate, rende legittimo il definito sistema, nel raggiunto suo ragionevole contemperamento delle contrapposte esigenze. 18. Con il diciottesimo motivo si deduce violazione degli artt. 2, 13, 24, 29, 30, 32, 104 e 111 Cost.; artt. 6 ed 8 CEDU; artt. 337 bis, ter e quater c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4; illegittimità della “delega in bianco” ai Servizi sociali di trattare se del caso “sanitariamente e coattivamente le figlie e i genitori con espressa punizione in caso di esercizio di un diritto dell’uomo”. Il motivo è infondato. La previsione dell’intervento di supporto psicologico psichiatrico di entrambi i genitori si inserisce in un quadro di sostegno alla genitorialità sviluppato, nella soluzione prescelta dal giudice di primo grado, condivisa dalla Corte di appello ed illustrata nel motivo di ricorso, “per il tempo ritenuto necessario nel solo interesse delle loro figlie”, restando attivato nel presupposto del consenso dei genitori. L’iniziativa non è imposta come individuale e doverosa ma, involgendo le posizioni di genitori e figlie e risultando espressamente subordinata al consenso dei primi, nella dimensione parentale goduta essa resta compatibile con un sistema volto a tutelare le ragioni delle minori in un quadro di recupero della genitorialità. La prescrizione non entra pertanto in urto con quanto ritenuto da questa stessa sezione con la sentenza del 01/07/2015 n. 13506 e non vivendo in via autonoma, essa non resta connotata da una finalità estranea al giudizio che è quella di recupero di una bigenitorialità a salvaguardia delle posizioni dei figli minori. Il motivo va pertanto rigettato. 19. Con il diciannovesimo motivo di ricorso si fa valer la violazione degli artt. 2, 13, 29, 30 e 32 Cost.; artt. 6 e 6 CEDU; violazione dell’interesse delle figlie minori in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4: illegittimità delle ulteriori restrizioni e limitazioni di luogo e presenza alle visite paterne. La previsione (dispositivo punto 3 e p. 8 sentenza) per il padre di poter tenere con sè le figlie presso un’abitazione inesistente, quella paterna, purchè le incontri da solo e senza poter uscire per una intera giornata consisterebbe in una limitazione del diritto fondamentale del padre e delle figlie di autodeterminarsi determinando la degenerazione della libertà di genitore e figlie in una misura restrittiva della libertà. Tanto sarebbe avvenuto in difetto di qualsivoglia pregiudizio per le minori ed il comando sarebbe stato impossibile per inesistenza dell’abitazione prevista e perchè nella casa in cui gli incontri erano avvenuti vivono anche i nonni paterni. La previsione di un monitoraggio senza termine da parte dei Servizi Sociali sarebbe stato violativo dell’art. 8 CEDU. Il motivo è inammissibile. La Corte di merito (p. 7) muovendo dagli esiti delle relazioni dell’ente affidatario dà conto della circostanza che il padre trascorre poco tempo con le figlie che lascia con i propri genitori allontanandosi dalla loro casa, presso cui egli continua a portare le figlie, per tutto il giorno e tornando solo la sera. Il ricorso non confrontandosi con siffatta motivazione, nella decisività del rilievo in essa contenuto, non coglie della impugnata sentenza la ratio ed introduce una critica inefficace. 20. Con il ventesimo motivo si deduce il contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili sulla capacità genitoriale paterna e materna e sui rapporti con le figlie in riferimento all’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Da una parte la Corte aveva evidenziato la volontà delle figlie di non stare con padre e del padre di non vedere le figlie per poi, nel valutare la capacità della madre, sottolineare la volontà delle figlie, non osteggiata dalla genitrice, di vedere e stare con il padre nell’attaccamento di questi alle figlie. Il motivo è infondato. Gli argomenti censurati sostengono da una parte il giudizio sulla incapacità paterna quando, all’esito dei viaggi a Roma, le bambine vengono lasciate dal genitore da sole con i nonni paterni e dall’altra la valutazione del diritto alla bigenitorialità nel suo composito contenuto quanto ai rapporti tra genitori e figli. 21 e 22. Con il ventunesimo ed il ventiduesimo motivo si deduce, rispettivamente, l’apparenza della motivazione in relazione all’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4, là dove la Corte di merito sancisce l’ablazione di ogni rapporto tra padre e figli e la violazione degli artt. 2, 13, 329 e 30 Cost., dell’art. 8 CEDU; degli artt. 337-ter, e quater, 317-bis c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonchè il vizio per omesso esame di un fatto ex art. 360 c.p.c., n. 5 quanto alle capacità genitoriali e i rapporti con le figlie. La Corte di appello avrebbe omesso di vagliare le relazioni dei Servizi Sociali senza considerazione le allegazioni difensive, e muoverebbe in modo illegittimo dalla situazione di conflitto tra coniugi per adottare una decisione di ablazione della responsabilità genitoriale. I motivi sono inammissibili perchè finalizzati a contestare in modo non consentito in sede di legittimità in via diretta il merito della controversia come definito dagli accertamenti svolti dal giudice di appello. 23. Con il ventitreesimo motivo si fa valere motivazione apparente e contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili sulla capacità genitoriale paterna e materna con riferimento all’art. 111 Cost. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; in subordine omessa valutazione di fatti decisivi ex art. 360 c.p.c., n. 5 e violazione dell’interesse delle minori ex art. 337-ter in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 inesistenza e inadeguatezza di un’attuale abitazione del ricorrente. La motivazione, denunciata come finanche perplessa sull’esistenza dell’abitazione in cui il ricorrente vivrebbe, avrebbe poi condizionato in modo decisivo ogni successiva determinazione in punto di statuizioni economiche e non. La perdita dell’abitazione in cui il padre sarebbe vissuto in locazione sarebbe stata circostanza non contestata dalla moglie. Il motivo è infondato. La motivazione distingue tra affermazioni rese agli operatori sociali e condotta di non contestazione tenuta nel corso del processo dalla parte, valorizzando quest’ultima per gli effetti processuali suoi propri ex art. 115 c.p.c. Nel resto la censura proposta è di squisito merito, a cui peraltro replica, in una dimensione, ancora, di stretta fattualità. la resistente nel controricorso. 24. Con il ventiquattresimo motivo, si deduce violazione degli artt. 2 e 36 Cost.; degli artt. 2, 4, 5 e 8 CEDU; violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c., comma 6 della L. n. 219 del 2012, art. 3, comma 2; L. n. 898 del 1970, art. 8, commi 5 e 6, del D.P.R. n. 180 del 1950, artt. 1 e 2 e dell’art. 545 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 Si solleva questione di legittimità costituzionale ex art. 134 Cost. della L. n. 1 del 1948, art. 1 e L. n. 87 del 1953, art. 23 in punto di distrazione ed integrale assegnazione dello stipendio alla moglie. La Corte di merito, elevando ad Euro 1.200,00 mensili il contributo per il mantenimento delle figlie a carico del ricorrente, godendo egli quale lavoratore dipendente di uno stipendio mensile di Euro 1.800,00 già gravato della cessione di un quinto e di altre trattenute, nel saldo negativo registrato dalla parte, avrebbe violato la normativa su cessioni e pignoramenti degli stipendi dei dipendenti pubblici là dove essa pone limiti alla pignorabilità nella misura variabile tra 1/5 ed 1/3 dell’intero e, nel concorso di più titoli, pone quale termine complessivo ed invalicabile quello della metà, valutata al netto delle ritenute. La Legge sul divorzio n. 898 del 1970, art. 8, comma 5, avrebbe previsto l’onere per l’ente pubblico datore di lavoro tenuto in via diretta del pagamento di versare per crediti alimentari una somma superiore alla metà dello stipendio ed eguale previsione avrebbe riguardato i figli nati fuori dal matrimonio. Medesime previsioni sarebbero contenute nell’ordinamento tributario e nel novellato art. 545 c.p.c. che al comma 5 pone quale limite al prelievo forzoso quello della metà degli emolumenti fatte salve le ulteriori limitazioni contenute in leggi speciali. Principi generali dell’ordinamento in un’applicazione della normativa in materia ispirata al canone costituzionale di tutela della dignità della persona e del lavoratore sosterrebbero la nullità della sentenza in quanto violativa delle limitazioni al vincolo rispetto ad una norma, l’art. 156 c.c., comma 6, che, ove diversamente interpretata, si esporrebbe a dubbio di legittimità costituzionale. Non risponderebbe all’interesse del minore, come ritenuto dal Tribunale con provvedimento reso in corso di causa il 3.6.2015, alla “eliminazione” della vita sociale di un genitore ed una decisione siffatta sarebbe violativa dell’art. 156 c.c., comma 6, come interpretato da Corte costituzionale n. 278/1994 che subordina la misura all’assenza di un serio pregiudizio degli aventi diritto. Il motivo è inammissibilmente posto. Ed infatti la Corte di appello ha stabilito il contributo al mantenimento delle figlie minori sul presupposto che il reddito complessivo del genitore gravato, inteso come capacità reddituale (p. 9 motivazione,) fosse superiore a quello dichiarato e quindi ai 1.800,00-2.000,00 Euro mensili percepiti quale docente universitario. Siffatta premessa resta estranea al proposto motivo che dato, invece, per certo l’ammontare dello stipendio mensile quale dipendente pubblico del genitore gravato, censura la decisione impugnata perchè violativa della normativa che sancendo limiti alla pignorabilità e vincolatività dello stipendio è posta a presidio della dignità della persona. Il motivo non individua la ragione della decisione e, quindi e correttamente, il perimetro di contestazione, restando come tale inammissibile (Cass. 10/08/2017 n. 19989). Ogni altro profilo è assorbito. 25. Con il venticinquesimo motivo, si denuncia l’irriducibile contrasto tra affermazioni contenute in sentenza quanto ai provvedimenti economici adottati ed il mutamento dei redditi del padre con conseguente violazione dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; degli artt. 3, 4 e 13 Cost. e artt. 316-bis e 337-ter c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La Corte di merito avrebbe accertato in sentenza il mutamento della capacità reddituale di uno dei due genitori che nel corso del giudizio di primo grado, a seguito della riforma forense, aveva optato per la carriera universitaria a tempo pieno, per poi fissare l’ammontare del contributo in misura sostanzialmente pari a quella determinata in sede presidenziale quando il primo svolgeva ancora la professione forense. Il motivo è inammissibile perchè propone una lettura della sentenza impugnata che non coglie di questa la ratio decidendi incorrendo in tal modo in difetto di autosufficienza (n. 19989 cit.; vd.: Cass. 17/07/2007 n. 15952). La Corte di appello di Milano dopo aver dato atto che il padre ha dichiarato di svolgere in via esclusiva attività di docenza presso l’Università per il prescelto regime e che, in ragione di tanto, ad oggi non può più svolgere attività professionale extra-universitaria, ricostruisce il reddito del primo sulla capacità di spesa e di reddito, intesa anche come risparmio delle pregresse attività, valorizzando la posizione economica della famiglia di provenienza, qualificata come benestante, la pregressa attività professionale svolta durante il matrimonio. I giudici di appello hanno poi ritenuto l’indicata evidenza confermata dalla condotta, apprezzata come concludente, adottata dal ricorrente che ha chiesto il collocamento presso di sè delle figlie minori senza alcun contributo mensile da parte della moglie. Rispetto all’indicato percorso la denuncia della illegittimità per contrasto con principi, anche di rilievo costituzionale e per apparenza della motivazione, non dialoga con quest’ultima per la quale, quanto viene inteso in ricorso in termini di positiva premessa delle ridotte capacità contributive del padre delle minori – tale è l’opzione per il tempo pieno universitario – è in realtà negata nei suoi effetti per una diversa e più articolata argomentazione. Nel resto il motivo è comunque infondato; il principio applicato dalla Corte di merito è certa espressione di consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità. Al fine della quantificazione dell’assegno di contributo al mantenimento dei figli minori in sede di separazione personale tra coniugi, ex art. 316-bis c.c., comma 1, richiamato dall’art. 155 c.c., il giudice del merito deve accertare, quale indispensabile elemento di riferimento ai fini della valutazione di congruità dell’assegno, le disponibilità patrimoniali dell’onerato in rapporto di proporzione con quelle dell’altro genitore, ma anche la rispettiva capacità di lavoro, professionale o casalingo, di ciascun coniuge, con espressa valorizzazione, oltre che delle risorse economiche individuali, anche delle accertate potenzialità reddituali nella necessità di mantenimento del tenore di vita in precedenza goduto dai minori (Cass. 24/04/2007 n. 9915; Cass. 10/07/2013 n. 17089; Cass. 01/03/2018 n. 4811). 26. Con il ventiseiesimo motivo si denuncia l’impugnata sentenza per motivazione meramente apparente in riferimento all’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4: la composizione degli interessi avrebbe operato quale attentato alla sopravvivenza fisica di un padre senza motivazione. Il motivo reitera critica assorbita dal vaglio del precedente. 27. Con il ventisettesimo motivo si fa valere la violazione dell’art. 30 Cost., artt. 337-ter e 316-bis c.c. e dell’art. 2034 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nella dedotta irrilevanza della situazione patrimoniale dei nonni paterni e delle obbligazioni naturali nella ricostruzione dei redditi e delle sostanze del padre. La Corte di merito avrebbe erroneamente ritenuto, in contrasto con gli artt. 337-ter e 316-bis c.c. e lo stesso art. 2034 c.c., che le sostanze dei genitori sui cui parametrare il contributo al mantenimento non fossero solo quelle dei genitori delle minori, ma anche quelle dei nonni integranti, invece, una obbligazione “eventuale” e “pro futuro”. Il motivo è inammissibile perchè non si correla con le ragioni della decisione di cui non coglie l’argomento portante come indicato sub n. 25. 28. Con il ventottesimo motivo si deduce la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.; violazione dell’art. 2729 c.c. e dell’art. 97 disp. att. c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4); omessa considerazione di circostanze decisive (art. 360 c.p.c., n. 5): le impossibili presunzioni sulle maggiori entrate del sig. M. (e dei suoi genitori). Il motivo è inammissibile per le ragioni di seguito indicate. Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità; pertanto la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (Cass. n. 23940 del 12/10/2017). Ferma l’inammissibilità della censura, espressamente qualificata in termini di nullità processuale della sentenza, nel resto si assiste comunque ad una non consentita richiesta di rivalutazione dell’argomentare presuntivo osservato dalla Corte di merito che resta incensurabile in cassazione in punto di valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge, in quanto adeguatamente motivato. 29. Con il ventinovesimo motivo si fa valere la violazione e falsa applicazione degli artt. 337-ter, 316 bis, 147 e 148 c.c. e del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.; la violazione degli artt. 2, 3, 30, 36 Cost.; artt. 2, 4, 5 e 8 CEDU; la violazione del diritto di bigenitorialità delle figlie; il D.Lgs. 13 luglio 2017, n. 116, art. 23, comma 2 in relazione alle art. 360 c.p.c., n. 3; omessa considerazione di circostanze decisive in relazione all’art. 111 Cost. e art. 360 c.p.c., n. 5 quanto ai redditi e le sostanze dei coniugi ed ai provvedimenti economici impossibili da eseguire. Si tratta di cesura di merito, come tale inammissibile nel conclusivo rilievo del ricorrente della non capacità di dare attuazione ai provvedimenti economici, trattandosi di comandi matematicamente impossibili violativi del divieto di riduzione. Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (Cass. n. 6519 del 06/03/2019; n. 19959 del 22/09/2014). 30. Con il trentesimo motivo si contesta la violazione degli artt. 2, 3, 4, 13 e 36 Cost.; artt. 2, 4, 5 e 8 CEDU; la violazione degli artt. 316-bis e 337-ter c.c.; la violazione dell’art. 99 c.p.c. e art. 709 c.p.c., u.c. e art. 2907 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4; omessa considerazione di un fatto decisivo in relazione all’art. 111 Cost. e art. 360 c.p.c., n. 5: la retroattività dei provvedimenti economici e l’impossibilità dei provvedimenti economici interinali. Il motivo è assorbito dalla valutazione dei precedenti (n. 25 e ss.). 31. Con il trentunesimo si fa questione della violazione e falsa applicazione dell’art. 151 c.c. anche in riferimento all’art. 2 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; omessa considerazione di due motivi d’addebito e altri fatti decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5; omessa pronuncia sulle istanze istruttorie in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per un denunciato, all’esito della presupposta vicenda coniugale, di un “concubinato pubblico con prole nell’abitazione dell’amante a 200 km dalla residenza famigliare con occultamento delle figlie”. Il motivo si presta ad una valutazione di inammissibilità perchè portatore di censure del merito ed assorbito dai precedenti. 32. La resistente sollecita la condanna, equitativamente determinata, del ricorrente ai sensi dell’art. 96 c.p.c., u.c. novellato, “per aver costretto con un atto ingiustificatamente lungo, ad una difesa lunga, articolata ed estenuante” la resistente, oltre ad avere adottato un comportamento di mala fede e colpa grave esponendo fatti non veritieri con accuse alle produzioni inammissibili e reiterazione di eccezioni più volte deliberate e rigettate nei gradi di merito. Ai fini dell’applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, può costituire abuso del diritto di impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ove sia applicabile, “ratione temporis”, l’art. 348-ter c.c., comma 5, che ne esclude la invocabilità; in tali ipotesi, infatti, si determina uno sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacolano la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione (Cass. 27/02/2019 n. 5725; in termini, quanto al perimetro di applicazione della norma per un ricorso redatto in palese violazione dell’art. 366 c.p.c.: Cass. 23/05/2019 n. 14035). L’applicazione dell’indicato principio porta a ritenere l’insussistenza dell’abuso del diritto di impugnazione e a disattendere la sollecitata applicazione della sanzione di cui all’art. 96 c.p.c., comma 3. 33. Le spese di lite restano disciplinate in applicazione della principio della prevalenza della soccombenza come da dispositivo. 34. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 vanno omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente M.A. al pagamento delle spese processuali in favore di B.S. che liquida in complessivi Euro 8.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 vanno omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 19 settembre 2019. Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020
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