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DEVI CHIAMARE SUBITO E PRENDERE APPUNTAMENTO CON L’AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

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DEVI CHIAMARE SUBITO E PRENDERE APPUNTAMENTO CON L’AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

 

l’articolo 3, comma 1, della Legge n. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di esclude-re l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura.

 

responsabilità contrattuale su di essi gravante e sul conseguente onere della prova liberatoria dai medesimi non fornito. Tale conclusione di ordine probatorio è stata applicata al campo sanitario dalla nota ed ancora attuale Cass. 28.5.2004, n. 10297, ritenendo che deve affermarsi che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento

 

«Più precisamente, consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la presta-zione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà».

 

Secondo il S.C. porre a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica soddisfa la linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova fondata sul principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla. Secondo i giudici infatti, nell’obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. Pertanto in queste obbligazioni in cui l’oggetto è la stessa attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché può senza dubbio ritenersi che la prova sia più “vicina” a chi ha eseguito la prestazione piuttosto che al paziente che l’ha ricevuta; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che go-vernano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto e che quindi è esigibile che sia quest’ultimo a dimostrare

In diritto, un tale principio ha ricevuto compiuto svolgimento e precisazione – anche per le case di cura private oltre che per i plessi sanitari pubblici – con la nota Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 577, secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.

Tanto sulla scorta della seguente condivisibile premessa: “per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria. Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto”.

avvocato

DIVISIONI EREDITARIE

Tale conclusione non è stata modificata, ad avviso dello scrivente, dall’intervento della Legge Balduzzi (mentre il caso non è assoggettabile alle ultime disposizioni della legge Gelli, di riforma della precedente normativa).

Infatti, il Tribunale di Milano, smentendo una interpretazione di detta normativa in chiave “extra contrattuale” ha correttamente ritenuto che: «la responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’articolo 3 Legge n. 189/12 – è da qualificarsi come contrattuale … D’altra parte, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l’azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il solo regime della responsabilità extracontrattuale escludendo così l’applicabilità della disciplina di cui all’articolo 1218 del codice civile, così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per esempio «la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria per l’attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall’art. 2043 del codice civi-le») anziché il breve inciso in commento» (cfr. Trib. Milano n. 13574/2013). Anche altri giudici di merito hanno continuato ad interpretare in chiave contrattuale la responsabilità del sanitario (oltre a quella pacifica dell’ente ospedaliero):

 

in particolare, Trib. Napoli 13.5.2015, Trib. Arezzo 14.2.2013 e Trib. Cremona 1.10.2013. In una delle prime pronunce, Trib. di Rovereto 29.12.2013, ha così affermato: «il legislatore non è intervenuto sulle fonti delle obbligazioni e, in particolare, sull’art. 1173 c.c. il quale individua non solo il contratto e l’atto illecito ma anche ogni atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico; anche le obbligazioni di fonte legale (e non solo quelle di fonte contrattuale) sono disciplinate dall’art. 1218 c.c. e, per effetto della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 1978) è configurabile un rapporto obbligatorio di origine legale ogni qual volta un paziente si rivolga ad una qualche struttura sanitaria appartenente al servizio per ricevere le cure del caso, indipendentemente dalla conclusione di un contratto in senso tecnico».

 

Anche Trib. Bari 7.7.2015, ha aderito a questo orientamento, sostenendo che «non si può convenire con l’evoluzione giurisprudenziale seguita all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 3 L. n. 189/2012 (c.d. Legge Balduzzi), che avrebbe ricondotto la responsabilità del medico nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, atteso che la norma citata deve intendersi riferita soltanto ai casi di colpa lieve dell’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; ne consegue che, anche dopo l’entrata in vigore della c.d. Legge Balduzzi, la responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria è da qualificarsi come contrattuale».

Tale posizione è stata accolta anche dalla giurisprudenza di legittimità: «l’articolo 3, comma 1, della Legge n. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di esclude-re l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni» (Cass. n. 8940/2014).

 

 

Poichè, come detto, la legge Gelli non è applicabile alla fattispecie in esame, quanto precede appare sufficiente a rigettare l’eccezione di prescrizione avanzata dal dott. B. ed a fondare la responsabilità solidale di entrambi i convenuti. Diverso è, evidentemente il discorso per quanto riguarda la graduazione interna, posta la domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario, domanda che deve essere accolta considerato che nessuna negligenza è risultata imputabile al più generale svolgimento della prestazione assistenziale da parte della casa di cura, dovendo ricondursi l’inadempimento ad un inesatto svolgimento della prestazione chirurgica da parte del solo dott. B., come sul punto ha chiarito lo stesso CTU.

 

II.

Passando alla liquidazione del danno risarcibile in favore dell’attrice occorre evidenziare come lo stesso CTU abbia ridimensionato le conseguenze risarcibili causalmente connesse a colpa medica nell’ordine del 4-5% di danno biologico (vds. conclusioni p. 38 ove distingue un quadro menomativo complessivo da quello causalmente collegato alla sola prestazione sanitaria qui contestata). Attese le specificità del caso si adotterà per il calcolo del danno risarcibile, al fine di determinare un completo e non parziale ristoro delle lesioni subite, la misura del 5%.

Il CTU ha invece escluso una diminuzione della capacità lavorativa specifica di badante, mentre in assenza di prova più specifica, il periodo di inabilità temporanea già risulta risarcibile in relazione ai seguenti periodi di compromissione temporanea dell’integrità psico-fisica:

60 gg. di ITP al 75%;

60 gg. di ITP al 50%;

60 gg. di ITP al 25%.

Spese documentate e rimborsabili in Euro 8.129,94 senza necessità di ricorrere a spese mediche future.

In relazione alla liquidazione in termini monetari del danno, viene poi in rilievo l’art. 3 co. 3 della già citata Legge Balduzzi, ove si afferma che:

“il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo”.

Poiché nella fattispecie in esame ci si muove nell’ambito delle c.d. micropermanenti, è pertanto all’apposito decreto ministeriale attuativo dell’art. 139 Codice Assicurazioni che occorre rifarsi e, in particolare, a quello più recente: il D.M. 17 luglio 2017.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di RAVENNA

SEZIONE CIVILE

 

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Alessandro Farolfi

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, la sig.ra T. R. ha evocato in giudizio il dott. B. M. e M. C. Hospital s.p.a. (già S. P. D. Hospital s.p.a.), chiedendone la condanna solidale al risarcimento dei danni subiti a seguito dell’operazione chirurgica correttiva subita al piede dx per alluce valgo + dito “a martello” nell’aprile 2006 che, invece di eliminare un leggero indolenzimento al piede, causava conseguenze invalidanti ed ingravescenti cui seguivano ulteriori ricoveri ed interventi, con grave deterioramento della vita dell’attrice ed un danno permanente del 9%, un lungo periodo di inabilità temporanea, lesione della sua capacità lavorativa specifica di badante e necessità di ricorrere a personale a pagamento per l’assistenza al marito, deceduto nel 2008.

Si è costituito il dott. B., contestando integralmente la domanda attorea, rilevando che lo stesso era stato chiamato in mediazione e quindi evocato in giudizio ad otto anni da un intervento senza che l’attrice si fosse più ripresentata a controlli, dopo le due visite iniziali post operatorie; rilevava altresì la prescrizione della domanda attorea, avendo l’attrice concluso un contratto con l’allora Casa di Cura S. P. D. e configurandosi la responsabilità del medico convenuto a titolo extracontrattuale, ex art. 3 L. Balduzzi, ed in ogni caso l’assenza di nesso causale e di responsabilità. Il convenuto domandava, conseguentemente, il rigetto delle domande attoree e la chiamata in causa della propria compagnia assicurativa.

Si è altresì costituita la casa di cura privata M. C. Hospital S.p.a., rilevando la presenza di consenso all’atto medico da parte dell’attrice che peraltro era onere del medico acquisire nell’ambito del rapporto libero-professionale instaurato con quest’ultimo, nonché l’assenza di qualunque responsabilità della struttura. La convenuta concludeva per il rigetto delle domande attoree e per la chiamata in causa del medico già convenuto, per essere da questi tenuta indenne e manlevata di qualunque conseguenza negativa, nonché delle proprie compagnie assicuratrici.

Disposta la integrazione del contraddittorio, si è costituita la compagnia A. Assicurazioni s.p.a. associandosi alle difese della casa di cura ed eccependo l’esistenza di un massimale “a consumo” e la presenza di coassicurazione, rilevando che la stessa potrebbe al più rispondere sino all’importo di Euro 500.000 per tutti i sinistri verificatisi fra il 31/12/2003 e 31/12/2008 e solo in secondo rischio (ossia solo per l’eccedenza rispetto a quanto garantito dalla polizza personale) per i medici non dipendenti dalla casa di cura, quale era il dott. M. B., con una franchigia di 750.000 Euro.

Si è così costituita anche la G. I. s.p.a. contestando l’an ed il quantum della domanda attorea e l’estraneità della casa di cura dalla causazione del danno, eccependo l’esistenza di coassicurazione che per la terza chiamata corrisponde ad un 10% del massimale a consumo di Euro 1.000.000 (importo massimo risarcibile di Euro 100.000), e solo in secondo rischio (ossia solo per l’eccedenza rispetto a quanto garantito dalla polizza personale) per i medici non dipendenti dalla casa di cura, quale era il dott. M. B., con una franchigia di 750.000 Euro.

Si è infine costituita anche A. M. s.p.a., compagnia assicurativa del medico convenuto dott. B., aderendo alle difese di quest’ultimo e contestando che la polizza opera soltanto in secondo rischio, oltre il massimale assicurato dall’ente ovvero, in mancanza di copertura assicurativa dell’ente (pubblico o privato) per la sola ipotesi di insolvenza dello stesso, nonché l’inoperatività della garanzia rispetto alla domanda di rivalsa svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario e, in ogni caso, l’inoperatività della polizza per la mancata comunicazione delle richieste risarcitorie già pervenute al momento di accensione del rapporto assicurativo e l’assenza di copertura quanto all’eventuale ipotesi di carenza di consenso informato.

In corso di causa, dopo la concessione dei termini di cui all’art. 183 co. 6 c.p.c., è stata espletata una CTU medico legale (dep. 24/04/2017 da parte del dott. B.).

La causa è stata infine trattenuta in decisione da questo Giudice all’udienza del 13/12/2017, previa concessione di termini per conclusionali e repliche.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda risarcitoria di parte attrice appare fondata, per quanto di ragione, e deve essere accolta alla luce e nei limiti delle seguenti considerazioni.

La C.T.U. espletata in corso di causa, eseguita con corretta metodologia e nel pieno rispetto del contraddittorio, dopo ampia ricostruzione dei dati anamnestici e della “storia” sanitaria della paziente (vds. p. 5 e ss.) ha portato ad evidenziare, mediante argomentazioni scevre da vizi logici e basate sul consulto di altro sanitario specialistico, che l’intervento chirurgico poteva apparire giustificato quale scelta terapeutica e che, tuttavia “sono emerse delle criticità nella materiale esecuzione dello stesso” (p. 22), con una evoluzione post chirurgica espressamente definita come “negativa” (p. 23) e “intimamente correlata ad un inserimento inadeguato dei cerchiaggi, alias errore tecnico” ed ancora la sussistenza di nesso causale “in altri e più precisi termini, la coerente analisi dei dati tecnici a disposizione permette di rilevare come alle avversità (altrimenti evitabili) sopra citate abbia efficientemente concorso una incongrua esecuzione dell’intervento da parte del dott. M. B., rilavando altresì una carenza di valida continuità assistenziale post operatoria. Conclude sul punto il CTU, in modo convincente, che

 

“l’erronea condotta del dott. M. B. si pone come antecedente causale giuridicamente rilevante nel determinismo del successivo e travagliato iter clinico della sig.ra T. R.” (p. 24). Aggiunge il CTU che “seguendo un continuum fenomenologico del tutto coerente, a distanza di circa 2 anni dal duplice e ravvicinato intervento chirurgico la paziente pativa una alterazione anatomo-funzionale dei nervi plantari con sviluppo dei neuromi di Morton al 1° spazio ed al 1° raggio metatarsale, di per sé responsabili di un (ulteriore) 3° intervento per la loro rimozione”.

Il CTU ha risposto in modo coerente alle osservazioni mosse dai CTP di parte, non risultando perciò necessaria la sua chiamata a chiarimenti né, tanto meno, una rinnovazione delle operazioni peritali (vds. p. 26 e ss. dell’elaborato).

Ritiene invece lo scrivente magistrato che il consenso della paziente sia stato reso con modalità sufficientemente informate, tenuto conto che esiste modulo di raccolta del consenso che evidenzia i principali rischi e che, soprattutto, il tenore dell’informazione non può spingersi a descrivere rischi improbabili o esiti infausti di per sé discendenti da una scorretta esecuzione dell’atto sanitario, posto che altrimenti dovrebbe accogliersi un inammissibile ragionamento tautologico per cui ogni volta in cui sia ravvisabile una condotta in qualche misura negligente nell’esecuzione della terapia o dell’intervento chirurgico dovrebbe necessariamente ravvisarsi, al contempo, una omissione informativa.

 

Il che evidentemente non è. Giova aggiungere che la scelta chirurgica in sé non è stata oggetto di critica da parte del CTU, sì che neppure può sostenersi che il paziente avrebbe potuto alternativamente percorrere misure conservative e che, ancora, l’esecuzione dell’intervento è stata preceduta – per quanto affermato dalla stessa attrice – dall’esecuzione nel marzo del 2006 di esame radiografico e da un’ulteriore visita a seguito del quale la paziente è stata certamente informata delle condizioni di salute in cui versava e della necessità dell’intervento e delle sue almeno indicative modalità di esecuzione e rischi. La circostanza che la scelta chirurgica sia poi stata condivisa dal CTU come appropriata al caso (seppure non correttamente eseguita) toglie pregio all’argomento secondo cui una più approfondita informazione avrebbe consentito alla paziente di scegliere altro trattamento terapico.

Pur con tale precisazione, deve perciò ritenersi la sussistenza dell’an debeatur della responsabilità di entrambi i convenuti, in ragione della responsabilità contrattuale su di essi gravante e sul conseguente onere della prova liberatoria dai medesimi non fornito. Tale conclusione di ordine probatorio è stata applicata al campo sanitario dalla nota ed ancora attuale Cass. 28.5.2004, n. 10297, ritenendo che deve affermarsi che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento:

 

«Più precisamente, consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la presta-zione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà». Secondo il S.C. porre a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica soddisfa la linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova fondata sul principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla. Secondo i giudici infatti, nell’obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. Pertanto in queste obbligazioni in cui l’oggetto è la stessa attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché può senza dubbio ritenersi che la prova sia più “vicina” a chi ha eseguito la prestazione piuttosto che al paziente che l’ha ricevuta; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che go-vernano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto e che quindi è esigibile che sia quest’ultimo a dimostrare

In diritto, un tale principio ha ricevuto compiuto svolgimento e precisazione – anche per le case di cura private oltre che per i plessi sanitari pubblici – con la nota Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 577, secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.

Tanto sulla scorta della seguente condivisibile premessa: “per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria. Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto”.

Tale conclusione non è stata modificata, ad avviso dello scrivente, dall’intervento della Legge Balduzzi (mentre il caso non è assoggettabile alle ultime disposizioni della legge Gelli, di riforma della precedente normativa).

Infatti, il Tribunale di Milano, smentendo una interpretazione di detta normativa in chiave “extra contrattuale” ha correttamente ritenuto che: «la responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’articolo 3 Legge n. 189/12 – è da qualificarsi come contrattuale … D’altra parte, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l’azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il solo regime della responsabilità extracontrattuale escludendo così l’applicabilità della disciplina di cui all’articolo 1218 del codice civile, così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per esempio «la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria per l’attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall’art. 2043 del codice civi-le») anziché il breve inciso in commento» (cfr. Trib. Milano n. 13574/2013). Anche altri giudici di merito hanno continuato ad interpretare in chiave contrattuale la responsabilità del sanitario (oltre a quella pacifica dell’ente ospedaliero): in particolare, Trib. Napoli 13.5.2015, Trib. Arezzo 14.2.2013 e Trib. Cremona 1.10.2013. In una delle prime pronunce, Trib. di Rovereto 29.12.2013, ha così affermato: «il legislatore non è intervenuto sulle fonti delle obbligazioni e, in particolare, sull’art. 1173 c.c. il quale individua non solo il contratto e l’atto illecito ma anche ogni atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico; anche le obbligazioni di fonte legale (e non solo quelle di fonte contrattuale) sono disciplinate dall’art. 1218 c.c. e, per effetto della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 1978) è configurabile un rapporto obbligatorio di origine legale ogni qual volta un paziente si rivolga ad una qualche struttura sanitaria appartenente al servizio per ricevere le cure del caso, indipendentemente dalla conclusione di un contratto in senso tecnico».

Anche Trib. Bari 7.7.2015, ha aderito a questo orientamento, sostenendo che «non si può convenire con l’evoluzione giurisprudenziale seguita all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 3 L. n. 189/2012 (c.d. Legge Balduzzi), che avrebbe ricondotto la responsabilità del medico nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, atteso che la norma citata deve intendersi riferita soltanto ai casi di colpa lieve dell’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; ne consegue che, anche dopo l’entrata in vigore della c.d. Legge Balduzzi, la responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria è da qualificarsi come contrattuale».

Tale posizione è stata accolta anche dalla giurisprudenza di legittimità: «l’articolo 3, comma 1, della Legge n. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di esclude-re l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni» (Cass. n. 8940/2014).

Poichè, come detto, la legge Gelli non è applicabile alla fattispecie in esame, quanto precede appare sufficiente a rigettare l’eccezione di prescrizione avanzata dal dott. B. ed a fondare la responsabilità solidale di entrambi i convenuti. Diverso è, evidentemente il discorso per quanto riguarda la graduazione interna, posta la domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario, domanda che deve essere accolta considerato che nessuna negligenza è risultata imputabile al più generale svolgimento della prestazione assistenziale da parte della casa di cura, dovendo ricondursi l’inadempimento ad un inesatto svolgimento della prestazione chirurgica da parte del solo dott. B., come sul punto ha chiarito lo stesso CTU.

 

II.

Passando alla liquidazione del danno risarcibile in favore dell’attrice occorre evidenziare come lo stesso CTU abbia ridimensionato le conseguenze risarcibili causalmente connesse a colpa medica nell’ordine del 4-5% di danno biologico (vds. conclusioni p. 38 ove distingue un quadro menomativo complessivo da quello causalmente collegato alla sola prestazione sanitaria qui contestata). Attese le specificità del caso si adotterà per il calcolo del danno risarcibile, al fine di determinare un completo e non parziale ristoro delle lesioni subite, la misura del 5%.

Il CTU ha invece escluso una diminuzione della capacità lavorativa specifica di badante, mentre in assenza di prova più specifica, il periodo di inabilità temporanea già risulta risarcibile in relazione ai seguenti periodi di compromissione temporanea dell’integrità psico-fisica:

ITP  50 gg. di ITP al 75%;

ED ANCORA 60 gg. di ITP al 50%;

30  gg. di ITP al 25%.

Spese documentate e rimborsabili in Euro 8.129,94 senza necessità di ricorrere a spese mediche future.

In relazione alla liquidazione in termini monetari del danno, viene poi in rilievo l’art. 3 co. 3 della già citata Legge Balduzzi, ove si afferma che:

“il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo”.

Poiché nella fattispecie in esame ci si muove nell’ambito delle c.d. micropermanenti, è pertanto all’apposito decreto ministeriale attuativo dell’art. 139 Codice Assicurazioni che occorre rifarsi e, in particolare, a quello più recente: il D.M. 17 luglio 2017.

Ne consegue che, avuto riguardo all’età della paziente al momento dell’intervento, applicato l’aumento del 20% per la personalizzazione connessa alle particolarità del caso ed alle specifiche sofferenze di ordine soggettivo emerse dalla lettura dei dati clinici prodotti in giudizio, utilizzato uno dei più diffusi software di calcolo si ottiene, con somme già rivalutate alla data di pubblicazione della presente decisione, sulla scorta degli accertamenti del CTU sopra richiamati, l’importo risarcibile di € 19.341,97. Tale somma deve essere gravata degli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente decisione sino al soddisfo.

Nessun altro danno è stato provato o allegato in termini specifici e non apodittici.

Nessuna delle compagnie assicuratrici chiamate in giudizio è tenuta a rispondere in manleva: per quanto riguarda il medico dott. B., infatti, la polizza prodotta dalla A. M. contiene una espressa esclusione del c.d. primo rischio all’art. 16 nell’ipotesi in cui – come nella specie – vi sia una Casa di Cura solidalmente responsabile che non sia non insolvente; a sua volta, tuttavia, anche le polizze delle Compagnie assicuratrici chiamate in giudizio da M. C. Hospital s.p.a. sono limitate al c.d. “secondo rischio”, ciò che determina anche in questo caso l’assenza di copertura assicurativa.

Come detto, va invece accolta la domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario pure convenuto.

Le spese legali seguono la soccombenza e gravano sui due convenuti. La complessità di analisi contrattuale e la particolarità della fattispecie, giustifica l’integrale compensazione delle spese quanto alle chiamate in causa. Le spese di CTU gravano in via definitiva sui convenuti, in via solidale.

 

P.Q.M.

Il Tribunale di Ravenna, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa R.G. 365/2015, ogni diversa istanza, domanda ed eccezione respinta,

dichiara tenuti e condanna, per i titoli in motivazione, il dott. B. M. e M. C. Hospital s.p.a. a risarcire all’attrice T. R. la somma di Euro 19.341,97 oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente decisione al soddisfo;

dichiara tenuto e condanna il dott. M. B. a rifondere e tenere indenne M. C. Hospital s.p.a. di quanto eventualmente pagato all’attrice in dipendenza della condanna di cui al capo che precede;

dichiara tenuti e condanna i convenuti a rifondere a parte attrice le spese di lite, che liquida in complessivi Euro 5.621 (di cui Euro 786 per spese, Euro 4.835 per compensi), oltre spese generali, IVA e CPA come per legge, oltre al rimborso delle spese di CTU nella misura liquidata e provvisoriamente sostenuta in corso di causa;

compensa le spese quanto alle terze chiamate compagnie assicuratrici.

Ravenna, 2 maggio 2018

Il Giudice

Dott. Alessandro Farolfi

ANALIZZIAMO LE MASSIME DELLA CASSAZIONE 

 

Cassazione civile sez. III, 28/11/2019, (ud. 30/09/2019, dep. 28/11/2019), n.31072

Questa Corte si è già ripetutamente occupata del senso da attribuire al D.L. n. 1 del 2012, art. 32, comma 3-ter, con le sentenze pronunciate da Sez. 3 -, Sentenza n. 18773 del 26/09/2016, Rv. 642106 – 02; Sez. 3 -, Sentenza n. 1272 del 19/01/2018, Rv. 647581 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 5820 del 28/02/2019, Rv. 652843 – 01; Sez. 3 -, Ordinanza n. 11218 del 24/04/2019, Rv. 653593 – 01.

Nelle decisioni appena ricordate questa Corte ha stabilito che il D.L. n. 1 del 2012, art. 32, comma 3 ter e (finchè sia stato applicabile) comma 3 quater, non è nè una norma che pone limiti ai mezzi di prova (essa non impedisce, dunque, di dimostrare l’esistenza d’un danno alla salute con fonti di prova diverse dai referti di esami strumentali); nè una norma che pone limiti alla risarcibilità del danno (essa non impone, dunque, di lasciare senza ristoro i danni che non attingessero una soglia minima di gravità).

L’art. 32 D.L. cit. è semplicemente una norma che ribadisce un principio già insito nel sistema, e cioè che il risarcimento di qualsiasi danno (e non solo di quello alla salute) presuppone che chi lo invochi ne dimostri l’esistenza “al di là di ogni ragionevole dubbio”; e che per contro non è nemmeno pensabile che possa pretendersi il risarcimento di danni semplicemente ipotizzati, temuti, eventuali, ipotetici, possibili ma non probabili.

Questa conclusione è imposta dall’interpretazione letterale e da quella finalistica.

1.2.1. Dal punto di vista letterale, la legge definisce “danno biologico” soltanto quello “suscettibile di accertamento medico legale” (così il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139 ma anche il D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13 nonchè, in precedenza, l’abrogato L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5).

“Accertare” deriva etimologicamente dal latino medioevale ad-certare, deverbativo di cerrus: esso esprime il concetto di “certificare”, cioè rendere sicuro, riconoscere per vero, verificare.

Definire pertanto la categoria del danno biologico come quello “suscettibile di accertamento medico legale” vuol dire che per predicarsi l’esistenza stessa (e non la mera risarcibilità) di tale pregiudizio occorre che esso sia dimostrabile non già sulla base di mere intuizioni, illazioni o suggestioni, ma sulla base di una corretta criteriologia accertativa medico-legale.

Ma la corretta criteriologia accertativa medico-legale non si limita ovviamente a considerare solo la storia clinica documentata della vittima. Essa ricorre altresì all’analisi della vis lesiva, all’analisi della sintomatologia, all’esame obiettivo, alla statistica clinica.

Un corretto accertamento medico-legale, pertanto, potrebbe pervenire a negare l’esistenza d’un danno permanente alla salute (o della sua derivazione causale dal fatto illecito) anche in presenza di esami strumentali dall’esito positivo (come nel caso d’una frattura documentata radiologicamente, ma incompatibile con la dinamica dell’infortunio per come emersa dall’istruttoria); così come, all’opposto, ben potrebbe pervenire ad ammettere l’esistenza d’un danno permanente alla salute anche in assenza di esami strumentali, quando ricorrano indizi gravi, precisi e concordanti, ai sensi dell’art. 2729 c.c., dell’esistenza del danno e della sua genesi causale.

Cassazione civile sez. III, 20/10/2021, n.29001

In tema di responsabilità medica, nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, la responsabilità della struttura sanitaria, integra, ai sensi dell’art.1228 c.c., una fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio, fondata sull’elemento soggettivo dell’ausiliario, la quale trova fondamento nell’assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall’utilizzazione di terzi nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, e che deve essere distinta dalla responsabilità indiretta per fatto altrui, di natura oggettiva, in base alla quale l’imprenditore risponde, per i fatti dei propri dipendenti, a norma dell’art.2049 c.c.; pertanto, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., atteso che, diversamente opinando, la concessione di un diritto di regresso integrale ridurrebbe il rischio di impresa, assunto dalla struttura, al solo rischio di insolvibilità del medico convenuto con l’azione di rivalsa, e salvo che, nel relativo giudizio, la struttura dimostri, oltre alla colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno sofferto dal paziente, da un lato, la derivazione causale di quell’evento da una condotta del sanitario del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità e, dall’altro, l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze, da parte sua, nell’adempimento del relativo contratto, comprensive di omissioni di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati.

 

al riguardo questa Corte (Cass., 11/11/2019, n. 28987) ha chiarito che la più frequente ricostruzione dell’istituto, oggi peraltro smentita testualmente dal disposto della L. n. 24 del 2007, art. 7, comma 1, sovrappone, erroneamente, la fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio ex art. 1228, c.c., dell’ente impersonale (che si serve di ausiliari quale strumento di attuazione dell’obbligazione contrattuale verso il paziente) pur sempre fondata sull’elemento soggettivo dell’ausiliario (il che ne esclude la configurabilità in termini di responsabilità oggettiva, salva un’autonoma responsabilità “organizzativa” della struttura stessa), con la responsabilità indiretta per fatto altrui (concordemente ritenuta di tipo oggettivo) dell’imprenditore per i fatti dei propri dipendenti, disciplinata dall’art. 2049 c.c.;

si tratta di fattispecie astratte radicalmente differenti per morfologia ed effetti;

nel primo caso (art. 1228 c.c.) l’attività dell’ausiliario è incardinata nel programma obbligatorio originario che è diretto a realizzare, e per la cui realizzazione il debitore contrattuale si è necessariamente avvalso dell’incaricato, essendogli preclusa, attesa la natura giuridica di ente, ogni possibilità di adempimento “diretto”;

nel secondo caso (art. 2049 c.c.), la condotta pregiudizievole non si traduce propriamente nella mancata o inesatta esecuzione di un contenuto obbligatorio del committente verso un creditore, quanto piuttosto nello svolgimento di mansioni dannose per un terzo privo di una pregressa relazione qualificata con il debitore, ferma l’alterità dei soggetti imputabili dell’illecito (il preponente, il preposto): e proprio per ciò si richiede la preposizione e l’occasionalità necessaria (Cass., Sez. U., 16/05/2019, n. 13246) per la configurazione di, una responsabilità (concordemente ritenuta oggettiva) del “dominus”;

la L. n. 24 del 2007 – sopravvenuta rispetto alla fattispecie qui in scrutinio – al di là dei peculiari contenuti delle singole disposizioni espressione della discrezionalità regolatoria del legislatore, costituisce, nella cornice della specialità della materia, indice ermeneutico d’indirizzo a supporto della ricostruzione appena esposta;

poiché nella fattispecie di cui all’art. 2049 c.c., i due soggetti, il padrone ed il commesso, rispondono per titoli distinti ma uno solo di essi è l’autore del danno, non si verifica l’ipotesi del concorso nella produzione del fatto dannoso e la conseguente ripartizione dell’onere risarcitorio secondo i criteri fissati dall’art. 2055 c.c.: ferma la corresponsabilità solidale nei confronti del danneggiato, il preponente responsabile – in estensione della tutela del terzo, ovvero in logica di garanzia com’e’ stato osservato in dottrina per il fatto altrui, può agire in regresso contro l’effettivo autore del fatto per l’intero e non “pro quota”;

quanto sopra spiega perché in questa ipotesi vi sia regresso per l’intero, e la necessità di differenziare la fattispecie di cui all’art. 1228 c.c.;

ciò proprio perché, in questo secondo e differente caso, la responsabilità di chi ha volontariamente incaricato l’ausiliario, e organizzato attraverso questo incarico l’esecuzione della propria obbligazione per i fini negoziali perseguiti, e’, appunto, per fatto proprio, e non altrui;

come rimarcato negli studi, la relazione che si instaura tra “dominus” e danneggiato preesiste alla condotta dannosa di inadempimento e il coinvolgimento dell’ausiliario è strutturalmente funzionale all’adempimento di quella previa obbligazione;

dovendo escludersi l’ipotesi che il giudizio di rivalsa integri gli estremi di un’ordinaria azione da inadempimento del contratto che lega la struttura sanitaria al medico, posto che tale profilo contrattuale non risulta assorbente rispetto alle implicazioni della responsabilità medica verso terzi, i criteri generali della relativa quantificazione non possono che essere ricondotti, sia pure in modo complessivamente analogico, al portato degli artt. 1298 e 2055 c.c., a mente dei quali il condebitore in solido che adempia all’intera obbligazione vanta il diritto di rivalersi, con lo strumento del regresso, sugli altri corresponsabili, secondo la misura della rispettiva responsabilità;

in linea di principio, la misura del regresso in parola varia a seconda della gravità della rispettiva colpa e dell’entità delle conseguenze che ne sono derivate;

L’art. 2055 c.c., comma 3, detta una presunzione “iuris tantum” di pari contribuzione al danno da parte dei condebitori solidali, che impone al “solvens” di provare la diversa misura delle colpe e della derivazione causale del sinistro;

dal suo canto, l’art. 1298 c.c., detta la regola secondo la quale l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori in parti che si presumono eguali, “se non risulti diversamente”;

in questa cornice, e riprendendo le premesse poste, va rimarcato come il medico operi pur sempre nel contesto dei servizi resi dalla struttura presso cui svolge l’attività, che sia stabile o saltuaria, per cui la sua condotta negligente non può essere “isolata”, in modo “impermeabile”, dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operate dalla struttura, di cui il medico stesso è parte integrante, mentre il citato art. 1228 c.c., fonda, a sua volta, l’imputazione al debitore degli illeciti commessi dai suoi ausiliari sulla libertà del titolare dell’obbligazione di decidere come provvedere all’adempimento, accettando il rischio connesso alle modalità prescelte, secondo la struttura di responsabilità da rischio d’impresa (“cuius commoda eius et incommoda”) ovvero, descrittivamente, secondo la responsabilità organizzativa nell’esecuzione di prestazioni complesse;

ne consegue che, se la struttura si avvale della “collaborazione” dei sanitari persone fisiche (utilità) si trova del pari a dover rispondere dei pregiudizi da costoro eventualmente cagionati (danno): la responsabilità di chi si avvale dell’esplicazione dell’attività del terzo per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale trova radice non tanto in una colpa “in eligendo” degli ausiliari o “in vigilando” circa il loro operato – e in questo si può integrare la motivazione della Corte di appello – bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento, realizzandosi, e non potendo obliterarsi, l’avvalimento dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino;

ecco perché per individuare il credito da regresso si deve tenere conto del contributo personale all’illecito dell’ausiliario, e della riconduzione del danno all’inadempimento di un’obbligazione che resta nella titolarità del debitore, e quindi pertiene alla sua area di controllo e di rischio;

ne consegue, anche in questa chiave, l’impredicabilità di un diritto di rivalsa integrale della struttura nei confronti del medico, in quanto, diversamente opinando, l’assunzione del rischio d’impresa per la struttura si sostanzierebbe, in definitiva, nel solo rischio d’insolvibilità del medico così convenuto dalla stessa;

tale soluzione deve incontrare un limite laddove si manifesti un evidente iato tra (grave e straordinaria) “malpractice” e (fisiologica) attività economica dell’impresa, che si risolva in vera e propria interruzione del nesso causale tra condotta del debitore (in parola) e danno lamentato dal paziente;

va precisato che, per ritenere superato l’assetto anche interno così ricostruito, non basta, pertanto, ritenere che l’inadempimento fosse ascrivibile alla condotta del medico, ma occorre considerare il composito e duplice titolo in ragione del quale la struttura risponde solidalmente del proprio operato, sicché sarà onere del “solvens”:

  1. a) dimostrare – per escludere del tutto una quota di rivalsa – non soltanto la colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno, ma la derivazione causale di quell’evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un’ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni;
  2. b) dimostrare – per superare la presunzione di parità delle quote, ferma l’impossibilità di comprimere del tutto quella della struttura, eccettuata l’ipotesi sub a) – che alla descritta colpa del medico si affianchi l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze nell’adempimento del contratto di spedalità da parte della struttura, comprensive di controlli atti a evitare rischi dei propri incaricati, da valutare in fatto, da parte del giudice di merito, in un’ottica di duttile apprezzamento della fattispecie concreta;

nella fattispecie, parte ricorrente afferma che i controlli sui rischi, la cui assenza è stata addebitata dalla Corte di appello, era stata affermata senza contestazioni, ma la censura non si misura con la ragione decisoria fatta propria dal Collegio di merito, per cui non poteva operare il disposto dell’art. 115 c.p.c., stante la genericità delle affermazioni in parola per lo più relative solamente “alla scelta iniziale dei collaboratori” (pag. 30 della sentenza impugnata), che corrispondono a quelle riportate in ricorso (alle pagg. 17-18);

 

Cassazione civile sez. VI, 26/07/2021, n.21404

La responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati “iure proprio” dai congiunti di un paziente deceduto, è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale.

 

Cassazione civile sez. III, 27/09/2021, n.26118

In tema di responsabilità per danni da attività medico-chirurgica, anche quando la domanda risarcitoria si fonda sull’erroneo operato del medico e non sui profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la transazione tra medico e danneggiato non impedisce l’esercizio dell’azione per l’accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera – che non ha natura di responsabilità per fatto altrui, bensì per fatto proprio e, pertanto, non viene meno in conseguenza della liberazione del medico dalla propria obbligazione risarcitoria -, ma comporta unicamente che, nel compiere detto accertamento, il giudice debba indagare “incidenter tantum” sulla esistenza di una eventuale condotta colposa del sanitario.

 

Una invalidità del 91% derivante da danno cerebrale, secondo uno dei più noti e autorevoli bareme medico legali, esprime e riassume i seguenti pregiudizi: “dipendenza completa, ripercussioni notevoli sull’autonomia individuale e sul funzionamento socio-relazionale”. Una invalidità del grado accertato dalla Corte d’appello, pertanto, ha quale conseguenza “normale” (il che non vuoi dire “non grave”, ma vuol dire indefettibile per tutte le persone che abbiano patito invalidità del medesimo grado) la perduta possibilità di andare a scuola, lavorare, praticare sport, frequentare persone, avere una vita sessuale: e cioè esattamente le attività prese in esame dalla Corte d’appello per incrementare il quantum del risarcimento del danno biologico. La Corte d’appello, in definitiva, ha ritenuto che costituissero circostanze “eccezionali”, e come tali giustificative di un incremento della misura standard del risarcimento, esattamente le stesse conseguenze che costituiscono invece conseguenza indefettibile di una invalidità pari 91%, e che per convenzione medico-legale sono già prese in considerazione nella suddetta misura percentuale. 7.4. La ritenuta fondatezza del motivo di ricorso qui in esame non impone, tuttavia, la cassazione con rinvio della sentenza impugnata. Ch.Ni., infatti, sulla questione della esistenza o meno di circostanze specifiche legittimanti la personalizzazione del risarcimento, non ha proposto un ricorso incidentale condizionato, inteso a sostenere che, nonostante l’errore commesso dalla Corte d’appello, esistevano comunque nel caso di specie ulteriori circostanze, non prese in esame dalla sentenza impugnata, che giustificavano un incremento del quantum debeatur. Ne consegue che, una volta escluso che le circostanze di fatto indicate dalla Corte d’appello potessero giustificare il suddetto aumento di 1/4 del risarcimento, non resta da compiere alcun ulteriore accertamento di fatto. La causa può quindi, su questo punto, essere decisa nel merito, accogliendo l’appello proposto dalla Berkshire, ed punto, essere decisa nel merito, accogliendo l’appello proposto dalla Berkshire, ed espungendo dalla liquidazione del danno biologico permanente patito da Ch.Ni. l’incremento del 25% applicato dal Tribunale. 8. Con l’ottavo motivo la società ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1223, 1225, 1226, 2056 e 2059 c.c.. Il motivo investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha accordato alla vittima la somma di Euro 393.061,68 a titolo di risarcimento del danno da perdita della “capacità lavorativa generica”. Deduce la ricorrente che la “capacità lavorativa generica” sarebbe ricompresa nel danno biologico, e di conseguenza la Corte d’appello avrebbe duplicato il risarcimento di quest’ultimo. 8.1. Il motivo è infondato. A prescindere, infatti, dall’uso dell’espressione “incapacità lavorativa generica” da parte della Corte d’appello, quel che è chiaro ed incontestabile è che il giudice di merito ha liquidato a Ch.Ni. la somma sopra indicata allo scopo di risarcire il danno consistito nell’avere perduto ogni possibilità di svolgere un lavoro remunerativo e guadagnare del denaro: un danno, quindi, totalmente diverso dal pregiudizio alla salute. Nessuna duplicazione risarcitoria, pertanto, è ravvisabile sotto questo profilo nella sentenza impugnata. 9. Col nono motivo la ricorrente impugna la sentenza di primo grado nella parte in cui ha escluso che il contratto di assicurazione stipulato con l’ospedale prevedesse una franchigia di Euro 750.000. Lamenta la Berkshire, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c.. Nella illustrazione del motivo sostiene che la polizza stipulata con l’ospedale conteneva, per delimitare il rischio assicurato, due clausole. La prima clausola era intitolata “Operatività della copertura assicurativa Massimali di garanzia”, ed in essa erano fissati i massimali di garanzia. Tale clausola prevedeva un doppio massimale, e cioè: -) un massimale di 5.000.000 di Euro per sinistro “in eccesso ad Euro 750.000”; -) un massimale di 10.000.000 di Euro per annualità assicurativa. La seconda clausola delimitatrice del rischio era l’art. 23 delle “Condizioni particolari”, il quale disciplinava la copertura per i fatti commessi da medici non dipendenti. Per tale rischio il contratto prevedeva “l’estensione di garanzia a) in eccesso a 750.000 Euro per sinistro; b) a secondo rischio in eccedenza ai massimali delle polizze personali sottoscritte dai medici”. Secondo la prospettazione della società ricorrente, il combinato disposto di tali clausole si sarebbe dovuto interpretare nel senso che il contratto garantiva la copertura soltanto dei danni causati dall’assicurato per importi eccedenti 750.000 Euro. 9.1. Il motivo è infondato. La clausola che la società ricorrente assume malamente interpretata dalla Corte d’appello era una clausola delimitativa non già del rischio di responsabilità civile dell’ospedale, ma del rischio di responsabilità civile dei medici operanti all’interno dell’ospedale. Essa infatti (trascritta dall’ospedale nel proprio controricorso, pagina 12, secondo capoverso) era intitolata: “Responsabilità civile personale”, e stabiliva le condizioni ed i limiti entro i quali l’assicuratore si obbligava a garantire “la responsabilità civile personale dei prestatori di lavoro”. In base al glossario di cui a pagina 16 del contratto, infine, “prestatori di lavoro” dovevano intendersi “i dipendenti e tutte le persone fisiche di cui l’assicurato si avvale a qualsiasi titolo”. In sostanza col contratto di cui si discorre la Berkshire aveva garantito due rischi: -) la responsabilità civile dell’Ospedale per fatto proprio, ed in questa parte il contratto -) la responsabilità civile dell’Ospedale per fatto proprio, ed in questa parte il contratto costituiva un’assicurazione per conto proprio ai sensi dell’art. 1882 c.c.; -) la responsabilità diretta dei dipendenti dell’assicurato, ed in questa parte il contratto costituiva un’assicurazione per conto altrui, ai sensi dell’art. 1891 c.c.. Solo per quest’ultima ipotesi era prevista la franchigia di Euro 750.000. Rispetto a tale ultima pattuizione, pertanto la qualità di “assicurato”, ai sensi dell’art. 1904 c.c., non spettava all’ospedale, ma ai suoi dipendenti. La clausola della cui interpretazione la società ricorrente si duole, pertanto, era una clausola che non veniva e non poteva venire in rilievo nei rapporti fra l’Ospedale e l’assicuratore, in quanto disciplinava l’assicurazione della responsabilità dei dipendenti e non quella dell’Ospedale. Le statuizioni contenute in quella clausola, pertanto, erano irrilevanti nei rapporti tra l’Ospedale e la Berkshire. Il motivo va di conseguenza rigettato, previa correzione della motivazione della sentenza impugnata nei termini che precedono. 10. Le considerazioni tutte che precedono, formulate con riferimento al ricorso principale proposto dalla Berkshire, ovviamente comportano il rigetto del ricorso incidentale adesivo proposto dall’Ospedale, ad eccezione del settimo motivo (pp. 30 e ss. del ricorso incidentale), coincidente col settimo motivo del ricorso principale e che deve intendersi accolto per le medesime ragioni di quello. 11. La decisione della causa nel merito impone a questa Corte di provvedere anche sulle spese dei precedenti gradi di giudizio, limitatamente al rapporto processuale tra il gruppo dei danneggiati e l’Ospedale. A tal fine, tenuto conto dell’esito complessivo della lite, le suddette spese vanno così regolate: a) le spese del primo grado di giudizio restano liquidate nella stessa misura stabilita dal Tribunale di Pavia, così come indicata a pag. 8 della sentenza d’appello; b) le spese del secondo grado di giudizio e quelle del presente giudizio di legittimità vanno compensate integralmente, in considerazione dell’accoglimento parziale del ricorso e della ritenuta parziale fondatezza dell’appello. 11.1. Nei rapporti tra la Berkshire e l’Ospedale le spese del present

 

Cassazione civile sez. VI, 22/04/2021, n.10592

Nella controversia tra il paziente che assuma di avere contratto un’infezione in conseguenza di un’emotrasfusione e la struttura sanitaria ove è stata eseguita, è onere non del medesimo paziente di allegare e provare che l’ospedale abbia tenuto una condotta negligente o imprudente nell’acquisizione e nella perfusione del plasma, ma della menzionata struttura di dedurre e dimostrare di avere rispettato le norme giuridiche e le “leges artis” che presiedono alle dette attività.

Ritiene doveroso questa Corte aggiungere che il precedente richiamato dalla Corte d’appello a fondamento della propria decisione (e cioè Sez. 3, Sentenza n. 3261 del 19/02/2016) non è pertinente, ove si legga la massima – come è sempre doveroso – alla luce del contenuto effettivo della motivazione.

Nel caso deciso dalla suddetta sentenza, infatti, una persona infettata in seguito ad una emotrasfusione aveva convenuto in giudizio la struttura sanitaria; questa, costituendosi, aveva eccepito la propria assenza di colpa, e dimostrato di avere eseguito la trasfusione con plasma fornito dalla struttura sanitaria pubblica e corredato di tutta la documentazione certificativa dell’avvenuto superamento dei controlli prescritti all’epoca dei fatti.

Il giudice di merito accolse tale eccezione e rigettò la domanda nei confronti della struttura; tale sentenza venne impugnata per cassazione dalla parte danneggiata.

La Corte di cassazione rigettò tuttavia il ricorso del danneggiato, affermando che eseguire un’emotrasfusione con plasma “tracciato” e del quale gli enti competenti avevano accertato l’asetticità costituisce una condotta diligente ex art. 1176 c.c..

Quindi nel precedente invocato dalla Corte d’appello la sentenza di merito reiettiva della domanda risarcitoria venne confermata da questa Corte sol perchè la struttura sanitaria aveva concretamente dimostrato la propria assenza di colpa.

Una vicenda, dunque, ben diversa da quella odierna, nella quale nei gradi di merito nulla si è accertato circa la condotta dell’ospedale, il rispetto da parte di esso dei protocolli vigenti ratione temporis, la qualificazione della sua condotta in termini di diligenza professionale ex art. 1176 c.c., comma 2.

2.3. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte d’appello di Catania, la quale tornerà ad esaminare il gravame applicando i seguenti principi di diritto:

“nella controversia tra il paziente che assuma di avere contratto un’infezione in conseguenza d’una emotrasfusione, e la struttura sanitaria ove quest’ultima venne eseguita, non è onere del primo allegare e provare che l’ospedale abbia tenuto una condotta negligente o imprudente nella acquisizione e nella perfusione del plasma, ma è onere del secondo allegare e dimostrare di avere rispettato le norme giuridiche e le leges artis che presiedono alle suddette attività”.

 

 

Cassazione civile sez. III, 23/02/2021, n.4864

In applicazione dei principi sul riparto dell’onere probatorio in materia di responsabilità sanitaria elaborati dalla Suprema Corte, secondo cui spetta al paziente provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre alla struttura sanitaria compete la prova di aver adempiuto esattamente la prestazione o la prova della causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione, con riferimento specifico alle infezioni nosocomiali, spetterà alla struttura provare di:

1) aver adottato tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, al fine di prevenire l’insorgenza di patologie infettive;

2) dimostrare di aver applicato i protocolli di prevenzione delle infezioni nel caso specifico.

Sul punto, occorre richiamare il consolidato orientamento di questa Corte per cui “In tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione” (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 1815 del 02/02/2015; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16368 del 17/7/2014; Sez. 2, Sentenza n. 13845 del 13/6/2007; Sez. 1, Sentenza n. 4885 del 7/3/2006; Sez. 3, Sentenza n. 17369 del 30/8/2004).

Nel caso di specie, il secondo motivo – dedotto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – soddisfa pienamente i requisiti di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, poichè individua direttamente ed indirettamente (trascrivendoli e localizzandoli) gli atti in ordine ai quali i ricorrenti richiedono il controllo di logicità. Superato il preliminare vaglio di ammissibilità, il motivo si rivela fondato nel merito, violando la sentenza impugnata quell’intangibile minus costituzionale il cui controllo è demandato al giudice di legittimità (per tutte, Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 7/4/2014).

Sul punto, il ragionamento della Corte di merito, come sopra detto, risulta in primo luogo perplesso, allorchè scompone lo scrutinio della sussistenza dell’evento dannoso allegato da parte attrice in due sottocategorie di danno – plegia e infezione – che andavano valutate unitariamente, la paralisi potendo, ragionevolmente e come indicato nella stessa CTU, costituire ò esito patologico degli interventi aggravato dall’infezione batterica.

In secondo luogo, apodittico in quanto ancorato alle sole risultanze peritali e carente sotto il profilo del doveroso confronto con la documentazione offerta dagli attori sin dal primo grado. A titolo esemplificativo: i verbali delle commissioni mediche di prima e seconda istanza che hanno riconosciuto l’invalidità civile alla sig.ra P., progressivamente ingravescente, con diagnosi di “grave deficit sensitivo-motorio (paraparesi), con instabilità statico-dinamica, da pregressa ernia discale lombare operata con complicanze post operatorie (spondilodiscite)”; tra cui, in specie, la relazione medico-legale del Dott. D.R. del (OMISSIS) che ha attribuito una percentuale di invalidità del 100% alla paziente con diritto all’assegno di accompagnamento per “esiti di doppio intervento di asportazione di ernia discale L5S1 (…) esiti di altri interventi di revisione della ferita lombare infetta; insufficienza statico-dinamica della colonna dorso-lombare e dell’arto inferiore sinistro, con necessità di appoggio obbligato a due bastoni; deambulazione claudicante precauzionale a piccoli passi e per due-tre metri; necessità di assistenza per la cura e l’igiene personale dalla vita in giù”; nonchè, la sentenza n. 1749/2009 del Tribunale di Lucera che ha riconosciuto la ricorrente totalmente invalida al 100% con diritto all’indennità di accompagnamento. A tale documentazione, già prodotta in primo grado, si aggiungono le produzioni svolte in sede d’appello in quanto maturate successivamente all’introduzione del gravame, tra cui: il verbale di verifica dell’INPS di Foggia del 12/10/2013 con conferma del riconoscimento di invalidità al 100%; il verbale della Commissione medica per l’accertamento dell’invalidità civile del 30/8/2016 con conferma della diagnosi di paraparesi da pregressa ernia discale lombare con complicanze post operatorie.

Di fronte al coacervo di documenti sanitari prodotti dagli attori – tutti provenienti da strutture sanitarie pubbliche e tutti univocamente diretti al riconoscimento di un quadro patologico di paraparesi agli arti inferiori dovuta a pregressi interventi e complicanze chirurgiche – resta oscura la ragione per cui la Corte del gravame concluda per la natura psicosomatica della plegia lamentata dalla sig.ra P.. Vieppiù, il giudice di secondo grado omette ogni menzione nel merito di tali produzioni, salvo poi rilevare che esse – in ogni caso – non mettono in discussione la bontà delle considerazioni peritali, lasciando a tale affermazione di principio il compito di spiegare le ragioni della decisione assunta. Così argomentata, tuttavia, la sentenza impugnata impedisce di comprendere l’iter logico seguito e, cioè, di chiarire su quali prove il giudice abbia fondato il proprio convincimento e verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata.

 

 

Cassazione civile sez. III, 11/11/2020, n.25288

È quanto affermato dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione che nell’affermare tale principio prende le mosse dal duplice nesso causale che, a mente dell’art. 1218 c.c., connota il giudizio sulla responsabilità contrattuale declinata al sottosistema della responsabilità sanitaria: l’uno relativo all’evento dannoso (fatto costitutivo), l’altro attinente alla impossibilità di adempiere per una causa imprevedibile ed inevitabile (fatto estintivo) operante in termini esonerativi per la struttura sanitaria.

Cassazione civile sez. III, 09/07/2020, n.14615

Il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico esplica i suoi effetti tra le sole parti del contratto, sicché l’inadempimento della struttura o del professionista genera responsabilità contrattuale esclusivamente nei confronti dell’assistito, che può essere fatta valere dai suoi congiunti “iure hereditario”, senza che questi ultimi, invece, possano agire a titolo contrattuale “iure proprio” per i danni da loro patiti. In particolare, non è configurabile, in linea generale, in favore di detti congiunti, un contratto con effetti protettivi del terzo, ipotesi che va circoscritta al contratto concluso dalla gestante con riferimento alle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione che, per la peculiarità dell’oggetto, è idoneo ad incidere in modo diretto sulla posizione del nascituro e del padre, sì da farne scaturire una tutela estesa a tali soggetti. (Nella specie, la S.C. ha escluso la spettanza dell’azione contrattuale “iure proprio” agli eredi di un soggetto ammalatosi e poi deceduto a causa di infezione da HCV contratta a seguito di emotrasfusioni eseguite presso un ospedale, precisando che essi avrebbero potuto eventualmente beneficiare della tutela aquiliana per i danni da loro stessi subiti).

 

Originally posted 2021-04-25 08:59:36.

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