DIRITTO IMMOBILIARE

 AVVOCATO SERGIO ARMAROLI

PER RISOLVERE DIVISIONE EREDITARiA CHIAMA 051/6447838

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 Con citazione del 6 dicembre 1982, (OMISSIS) esponeva che il (OMISSIS) era deceduto ad intestato (OMISSIS), lasciando a se’ superstiti i quattro figli (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’ la moglie (OMISSIS); che in data (OMISSIS) era deceduta (OMISSIS) e il (OMISSIS) (OMISSIS) (o (OMISSIS)), entrambe germane di (OMISSIS), le quali avevano disposto delle loro sostanze nominando eredi i nipoti (OMISSIS) e (OMISSIS); che il (OMISSIS) era deceduto (OMISSIS), lasciando a se’ superstiti i germani (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) e la madre (OMISSIS), la quale ultima decedeva in data (OMISSIS); che tanto premesso l’attore conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Benevento, i germani (OMISSIS) e (OMISSIS) per sentire dichiarare aperte le successioni di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’ per procedere allo scioglimento delle comunioni dei beni caduti nelle rispettive successioni e per sentire condannare (OMISSIS) al rilascio dei beni immobili in suo possesso. Chiedeva altresi’ la condanna di chi di dovere al pagamento dei frutti percetti e delle altre somme ricevute per eventuali espropri sui cespiti caduti in successione.

Questa Corte ha, del resto, avuto modo di affermare che il litisconsorzio necessario tra i coeredi, previsto nei giudizi aventi ad oggetto la divisione dei beni ereditari, trova applicazione finche’ non sia cessato lo stato di comunione mediante l’attribuzione ai singoli coeredi – nella specie, per accordo stragiudiziale – delle quote loro spettanti (Cass. n. 18218 del 2013). Ed e’ proprio questa la situazione che si e’ venuta a creare nel caso di specie: con la cessione della quota ereditaria da parte della dante causa delle due interventrici, queste ultime non hanno mai assunto la qualita’ di partecipanti alla comunione ereditaria, sicche’ la loro partecipazione al giudizio nella prospettata qualita’ di eredi della propria madre non poteva essere intesa come partecipazione necessaria.
Erroneamente, dunque, la Corte d’appello ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), dovendosi, nella specie, escludere una situazione di litisconsorzio necessario. Ne consegue che, essendo l’ordinanza di integrazione del contraddittorio stata erroneamente emessa, dalla mancata ottemperanza alla stessa non poteva discendere l’effetto della inammissibilita’ dell’appello.
DIRITTO IMMOBILIARE

DIRITTO IMMOBILIARE

  • Occorre premettere che le Sezioni Unite di questa Corte hanno di recente osservato come l’attuazione dei principi del giusto processo, di cui all’articolo 111 Cost., imponga un contemperamento tra le esigenze di natura pubblicistica del litisconsorzio necessario ed il dovere del giudice di verificare preliminarmente la sussistenza di un reale interesse a contraddire in capo al soggetto pretermesso (Cass., S.U., n. 11523 del 2013).
 
 
 
 
  • Nel caso di specie, risulta evidente la carenza di interesse delle litisconsorti pretermesse alla partecipazione al giudizio di divisione, atteso che le stesse avevano concluso in primo grado chiedendo la loro estromissione dal processo; e cio’ sul rilievo della inesistenza in capo a loro della qualita’ di eredi, avendo esse agito in rappresentazione della loro madre, la quale, pero’, nel 1922 aveva gia’ ceduto la propria quota ereditaria, nella quale le interventrici pretendevano di subentrare per rappresentazione.
 
 
 
 
  • Siffatta circostanza, invero, doveva essere ritenuta dalla Corte territoriale di per se’ idonea ad escludere la necessita’ della integrazione del contraddittorio nei confronti di chi, pur avendo agito per rappresentazione, aveva comunque dichiarato il venir meno della propria partecipazione alla comunione ereditaria oggetto di divisione per effetto della cessione, da parte della loro dante causa, della quota ereditaria, la cui titolarita’ costituiva, appunto, il titolo di legittimazione al giudizio di divisione.
 
 
 
 
  • Questa Corte ha, del resto, avuto modo di affermare che il litisconsorzio necessario tra i coeredi, previsto nei giudizi aventi ad oggetto la divisione dei beni ereditari, trova applicazione finche’ non sia cessato lo stato di comunione mediante l’attribuzione ai singoli coeredi – nella specie, per accordo stragiudiziale – delle quote loro spettanti (Cass. n. 18218 del 2013).
 
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  • Ed e’ proprio questa la situazione che si e’ venuta a creare nel caso di specie: con la cessione della quota ereditaria da parte della dante causa delle due interventrici, queste ultime non hanno mai assunto la qualita’ di partecipanti alla comunione ereditaria, sicche’ la loro partecipazione al giudizio nella prospettata qualita’ di eredi della propria madre non poteva essere intesa come partecipazione necessaria.
 
 
 
  • Erroneamente, dunque, la Corte d’appello ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), dovendosi, nella specie, escludere una situazione di litisconsorzio necessario. Ne consegue che, essendo l’ordinanza di integrazione del contraddittorio stata erroneamente emessa, dalla mancata ottemperanza alla stessa non poteva discendere l’effetto della inammissibilita’ dell’appello.
Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 10 marzo 2014, n. 5523
 
 
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GOLDONI Umberto – Presidente
Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) ((OMISSIS)), rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso, dagli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) ((OMISSIS)), rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al controricorso, dall’Avvocato (OMISSIS), presso il cui studio in (OMISSIS), e’ elettivamente domiciliato;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 2131 del 2012, depositata in data 14 giugno 2012;
Udita, la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 9 gennaio 2014 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;
sentiti gli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS).
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 6 dicembre 1982, (OMISSIS) esponeva che il (OMISSIS) era deceduto ad intestato (OMISSIS), lasciando a se’ superstiti i quattro figli (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’ la moglie (OMISSIS); che in data (OMISSIS) era deceduta (OMISSIS) e il (OMISSIS) (OMISSIS) (o (OMISSIS)), entrambe germane di (OMISSIS), le quali avevano disposto delle loro sostanze nominando eredi i nipoti (OMISSIS) e (OMISSIS); che il (OMISSIS) era deceduto (OMISSIS), lasciando a se’ superstiti i germani (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) e la madre (OMISSIS), la quale ultima decedeva in data (OMISSIS); che tanto premesso l’attore conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Benevento, i germani (OMISSIS) e (OMISSIS) per sentire dichiarare aperte le successioni di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’ per procedere allo scioglimento delle comunioni dei beni caduti nelle rispettive successioni e per sentire condannare (OMISSIS) al rilascio dei beni immobili in suo possesso. Chiedeva altresi’ la condanna di chi di dovere al pagamento dei frutti percetti e delle altre somme ricevute per eventuali espropri sui cespiti caduti in successione.
Espletata c.t.u., con comparse del 16 giugno 1986 intervenivano volontariamente (OMISSIS) e (OMISSIS), per sentire accertare il proprio diritto alle quote loro spettanti per legge quali eredi per rappresentazione alla propria genitrice (OMISSIS), figlia dell’originario capo-stipite (OMISSIS), deceduto nel (OMISSIS).
All’udienza del 23 novembre 1987 si costituiva (OMISSIS), la quale eccepiva la nullita’ dell’istruttoria fino a quel momento compiuta e la mancanza della qualita’ di eredi in capo agli istanti, essendosi prescritto il diritto ad accettare l’eredita’, e proponeva domanda riconvenzionale per sentir dichiarare la sua proprieta’ esclusiva per intervenuta usucapione dei beni relitti, deducendo di avere comunque apportato a proprie spese rilevanti migliorie.
Con sentenza non definitiva del 18 aprile 2002, il Tribunale di Benevento rigettava l’eccezione di prescrizione del diritto di accettare l’eredita’ e la domanda riconvenzionale.
Formulata riserva di appello da parte di (OMISSIS), veniva svolta una nuova c.t.u., all’esito della quale il Tribunale emetteva sentenza definitiva, pubblicata l’8 aprile 2005, con la quale venivano dichiarate aperte le successioni di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), e, rigettate le contestazioni formulate avverso il progetto divisionale presentato dal C.T.U., dichiarava esecutivo il progetto medesimo, disponendo l’attribuzione dei beni ereditari secondo il detto progetto.
Avverso queste due sentenze proponeva appello, con atto di citazione notificato ai soli (OMISSIS) e (OMISSIS), (OMISSIS); si costituivano (OMISSIS) e (OMISSIS), quale unica erede di (OMISSIS), deceduta il (OMISSIS), eccependo preliminarmente che occorreva integrare il contraddittorio nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), litisconsorti pretermesse.
Con comparsa dell’8 giugno 2009, l’appellante (OMISSIS) dichiarava di avere fatto propria l’eccezione di integrazione del contraddittorio nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS).
Con ordinanza collegiale del 14 gennaio 2011 la Corte d’appello disponeva l’integrazione del contraddittorio nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS).
Non essendosi a cio’ provveduto, le controparti eccepivano l’inammissibilita’ dell’appello ex articolo 331 cod. proc. civ..
L’appellante contestava tale richiesta, rilevando che il termine concesso per l’integrazione era esiguo, tenuto conto che le parti risiedevano in (OMISSIS), e successivamente, nel precisare le conclusioni, chiedeva la revoca dell’ordinanza collegiale 14 gennaio 2011, non avendo in realta’ (OMISSIS) e (OMISSIS) (quest’ultima nelle more deceduta), alcun diritto successorio, per avere la loro dante causa (OMISSIS) disposto con atto notarile della propria quota ereditaria spettantele dalla successione al padre (OMISSIS), in favore del germano (OMISSIS).
Con sentenza depositata il 14 giugno 2012, la Corte d’appello dichiarava inammissibile l’appello per l’omessa integrazione del contraddittorio, come stabilito dall’ordinanza collegiale del 14 gennaio 2001.
La Corte rilevava innanzitutto che la stessa appellante aveva convenuto sulla necessita’ di integrare il contraddittorio nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), salvo poi contestare la detta necessita’ sul rilievo della insussistenza di una situazione di litisconsorzio necessario. Riteneva, quindi, che le ragioni per le quali era stata disposta l’integrazione del contraddittorio con ordinanza collegiale dovessero essere condivise; e cio’ sul rilievo che le (OMISSIS) avevano spiegato intervento volontario assumendo la propria qualita’ di eredi per rappresentazione della loro madre (OMISSIS), figlia dell’originario dante causa (OMISSIS), deceduto nel (OMISSIS), chiedendo che fossero nei loro confronti estese tutte le eccezioni e richieste dell’originario atto di citazione del 1982.
La situazione di litisconsorzio necessario cosi venutasi a creare non risultava poi eliminata dalla richiesta, formulata nel 1999 dal difensore delle interventrici, di estromissione dal giudizio, allorquando era emerso che la dante causa delle (OMISSIS) aveva ceduto la propria quota ereditaria in favore del germano (OMISSIS), con conseguente venir meno nelle (OMISSIS) della qualita’ di eredi per rappresentazione della madre nella successione oggetto di causa. In proposito, la Corte d’appello rilevava che sulla istanza di estromissione il Tribunale non aveva statuito ne’ in sede di sentenza non definitiva, pronunciata espressamente anche nei confronti delle sorelle (OMISSIS), ne’ in sede di sentenza definitiva, nel corpo della quale, pur dandosi atto dell’intervento delle sorelle (OMISSIS), la loro presenza era stata omessa anche nella epigrafe.
In presenza dunque di una situazione di litisconsorzio processuale, venutasi a creare per effetto dell’intervento delle sorelle (OMISSIS), la Corte d’appello rilevava che ai fini della valutazione circa la necessita’ della integrazione del contraddittorio in sede di impugnazione doveva aversi riguardo alla posizione sostanziale dedotta in giudizio, a prescindere dalla effettiva titolarita’ del diritto controverso; e, nella specie, la posizione fatta valere dalle sorelle Pingue atteneva ad un rapporto inscindibile, avendo esse chiesto di partecipare al giudizio di scioglimento delle comunioni ereditarie quali eredi per rappresentazione della madre e quindi quali coeredi ex articolo 784 cod. proc. civ., a nulla rilevando che, per effetto dell’intervenuta cessione della quota della madre la loro pretesa fosse infondata.
Accertata quindi la necessita’ della integrazione del contraddittorio, la Corte d’appello rilevava che l’ordine di integrazione era rimasto inadempiuto e che l’appellante, dopo avere inizialmente indicato una impossibilita’ di provvedere all’adempimento dell’ordine nel termine prescritto, non aveva comprovato le ragioni della detta impossibilita’. Ne’ poteva attribuirsi rilievo al fatto che (OMISSIS) era nelle more deceduta, poiche’ l’atto di integrazione avrebbe dovuto essere notificato ai suoi eredi; senza dire che di tale decesso non vi era stata conoscenza processualmente rilevante.
Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso (OMISSIS) sulla base di un motivo.
Ha resistito con controricorso (OMISSIS), mentre non ha svolto difese l’intimata (OMISSIS).
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il Collegio rileva preliminarmente che non e’ di ostacolo alla trattazione del ricorso la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’articolo 70 c.p.c., comma 2, quale risultante dalle modifiche introdotte dal Decreto Legge 21 giugno 2013, n. 69, articolo 75 convertito, con modificazioni, nella Legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero deve intervenire nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge. A sua volta il Regio Decreto 10 gennaio 1941, n. 12, articolo 76 come sostituito dal citato Decreto Legge n. 69, articolo 81 al comma 1 dispone che Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici della Corte di cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla sezione di cui all’articolo 376 c.p.c., comma 1, primo periodo. L’articolo 376 c.p.c., comma 1, stabilisce che Il primo presidente, tranne quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di consiglio.
Infine, il gia’ citato Decreto Legge n. 69 del 2013, articolo 75 quale risultante dalla Legge di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al comma 1, la sostituzione dell’articolo 70 c.p.c., comma 2, e la modificazione dell’articolo 380-bis c.p.c., comma 2, e articolo 390 c.p.c., comma 1, per adeguare la disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico ministero alle udienze che si tengono dinnanzi alla sezione di cui all’articolo 376, comma 1, al comma 2 ha stabilito che Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e cioe’ a far data dal 22 agosto 2013.
Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto sia nel Regio Decreto n. 12 del 1941, articolo 76, comma 1, lettera b), (come modificato dal Decreto Legge n. 69 del 2013, articolo 81), sia nell’articolo 75, comma 2, citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioe’ quella di cui all’articolo 376 c.p.c., comma 1), consenta di ritenere non solo che la detta sezione e’ abilitata a tenere oltre alle adunanze camerali anche udienze pubbliche, ma anche che alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non e’ piu’ obbligatoria la partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facolta’ dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’articolo 70 c.p.c., comma 3, e cioe’ ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna e’ stato emesso in data 25 settembre 2013, sicche’ deve concludersi che l’udienza pubblica ben puo’ essere tenuta senza la partecipazione del rappresentante della Procura generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia integrale del ruolo di udienza e’ stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico che giustificasse la propria partecipazione ai sensi dell’articolo 70 c.p.c., comma 3.
2. Nel merito, con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 99, 101, 102, 105, 112, 267 e seguenti, 306, 310, 324, 331 cod. proc. civ. e articolo 2909 cod. civ.
La ricorrente sostiene che il ragionamento in base al quale la Corte d’appello ha ritenuto necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), pur se corretto logicamente, non terrebbe comunque conto del fatto che le due interventrici, le quali avevano chiesto in sede di precisazione della conclusioni in primo grado di essere estromesse dal giudizio per difetto della qualita’ di eredi, erano implicitamente state estromesse dal Tribunale in sede di sentenza definitiva. Alla posizione delle (OMISSIS) in tale sentenza, rileva la ricorrente, non e’ fatto alcun cenno, ed anzi la divisione con essa disposta presupponeva le interventrici non avessero alcun diritto a partecipare al giudizio di scioglimento della comunione. Nell’affermare che i soggetti aventi diritto alla divisione erano tre – e tra questi non erano comprese le sorelle (OMISSIS) – il Tribunale aveva quindi implicitamente estromesso le stesse dal giudizio, con statuizione sulla quale doveva ritenersi si fosse formato il giudicato implicito, atteso che nessuna impugnazione era stata proposta sul punto, non avendo gli altri coeredi interesse a far valere la mancata partecipazione delle (OMISSIS) alla divisione, e non potendo queste ultime impugnare la relativa statuizione, avendo il Tribunale accolto la loro richiesta di estromissione.
La Corte d’appello, sostiene la ricorrente, non avrebbe potuto desumere dal mancato espresso provvedimento sulla istanza di estromissione delle interventrici volontarie che queste ultime avessero conservato la loro veste di parti del processo, essendo una simile conclusione smentita dalla sentenza definitiva che non le aveva in alcun modo considerate nella decisione assunta. In sostanza, la formazione del giudicato implicito in ordine alla estraneita’ delle (OMISSIS) al giudizio impediva alla Corte d’appello di rilevare la non integrita’ del contraddittorio e di ordinare la integrazione dello stesso.
3. Il ricorso e’ fondato.
Occorre premettere che le Sezioni Unite di questa Corte hanno di recente osservato come l’attuazione dei principi del giusto processo, di cui all’articolo 111 Cost., imponga un contemperamento tra le esigenze di natura pubblicistica del litisconsorzio necessario ed il dovere del giudice di verificare preliminarmente la sussistenza di un reale interesse a contraddire in capo al soggetto pretermesso (Cass., S.U., n. 11523 del 2013).
Nel caso di specie, risulta evidente la carenza di interesse delle litisconsorti pretermesse alla partecipazione al giudizio di divisione, atteso che le stesse avevano concluso in primo grado chiedendo la loro estromissione dal processo; e cio’ sul rilievo della inesistenza in capo a loro della qualita’ di eredi, avendo esse agito in rappresentazione della loro madre, la quale, pero’, nel 1922 aveva gia’ ceduto la propria quota ereditaria, nella quale le interventrici pretendevano di subentrare per rappresentazione.
Siffatta circostanza, invero, doveva essere ritenuta dalla Corte territoriale di per se’ idonea ad escludere la necessita’ della integrazione del contraddittorio nei confronti di chi, pur avendo agito per rappresentazione, aveva comunque dichiarato il venir meno della propria partecipazione alla comunione ereditaria oggetto di divisione per effetto della cessione, da parte della loro dante causa, della quota ereditaria, la cui titolarita’ costituiva, appunto, il titolo di legittimazione al giudizio di divisione.
Questa Corte ha, del resto, avuto modo di affermare che il litisconsorzio necessario tra i coeredi, previsto nei giudizi aventi ad oggetto la divisione dei beni ereditari, trova applicazione finche’ non sia cessato lo stato di comunione mediante l’attribuzione ai singoli coeredi – nella specie, per accordo stragiudiziale – delle quote loro spettanti (Cass. n. 18218 del 2013). Ed e’ proprio questa la situazione che si e’ venuta a creare nel caso di specie: con la cessione della quota ereditaria da parte della dante causa delle due interventrici, queste ultime non hanno mai assunto la qualita’ di partecipanti alla comunione ereditaria, sicche’ la loro partecipazione al giudizio nella prospettata qualita’ di eredi della propria madre non poteva essere intesa come partecipazione necessaria.
Erroneamente, dunque, la Corte d’appello ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), dovendosi, nella specie, escludere una situazione di litisconsorzio necessario. Ne consegue che, essendo l’ordinanza di integrazione del contraddittorio stata erroneamente emessa, dalla mancata ottemperanza alla stessa non poteva discendere l’effetto della inammissibilita’ dell’appello.
3.1. In conclusione, il ricorso va accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, la quale procedera’ a nuovo esame del gravame facendo applicazione del seguente principio di diritto: premesso che l’attuazione dei principi del giusto processo, di cui all’articolo 111 Cost., impone un contemperamento tra le esigenze di natura pubblicistica del litisconsorzio necessario e il dovere del giudice di verificare preliminarmente la sussistenza di un reale interesse a contraddire in capo al soggetto pretermesso, nel giudizio di divisione ereditaria il litisconsorzio necessario, che sussiste nei confronti di tutti gli eredi, viene meno rispetto al coerede che, prima della introduzione del giudizio, abbia ceduto la propria quota ereditaria; ne’ tale litisconsorzio puo’ ritenersi sussistente nei confronti di chi, agendo in rappresentazione, ignorando la detta cessione da parte del proprio dante causa, abbia spiegato intervento nel giudizio di divisione. Ne consegue che l’omessa integrazione del contraddittorio – disposta in appello – nei confronti di tali parti, non comporta la inammissibilita’ del gravame.
Al giudice di rinvio e’ demandata altresi’ la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimita’.
 
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimita’, ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.
TESTO DELLA SENTENZA

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 4 giugno 2019, n.15182 – Presidente Manna – Relatore Dongiacomo

Ragioni della decisione

1. Il ricorso è tempestivo. La sentenza impugnata, infatti, è stata depositata in data 28/8/2014 mentre il ricorso per cassazione è stato notificato a seguito di richiesta del 15/10/2015: vale a dire, com’è evidente, se si considera, per l’anno 2014, il periodo di sospensione dei termini dall’1 agosto al 15 settembre, e, per l’anno 2015, il periodo di sospensione dei termini dal 1 agosto al 31 agosto (L. n. 742 del 1969, art. 1, nel testo applicabile ai sensi del D.L. n. 132 del 2014, art. 16, commi 1 e 3, conv. con modif. dalla L. n. 162 del 2014: Cass. n. 20866 del 2017), entro il termine di decadenza stabilito dall’art. 327 c.p.c., comma 1, nel testo in vigore prima delle modifiche apportate dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 17, trattandosi, ai fini della L. n. 69 cit., art. 58, comma 1, di processo introdotto in data anteriore al 4/7/2009, pari ad un anno dalla pubblicazione della sentenza.

2. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha omesso di pronunciarsi sulla domanda che lo stesso, tanto nella comparsa di risposta nel giudizio di primo grado, quanto nell’atto d’appello nel giudizio di secondo grado, aveva proposto, sia pur in via subordinata, e cioè di dichiarare che l’appartamento in (omissis) , con annessa autorimessa, ricadeva nella comunione legale tra la L. ed il marito e che, pertanto, la metà dello stesso facesse parte dell’asse ereditario relitto dal defunto.

3. Il motivo è infondato. La sentenza impugnata, in effetti, si è pronunciata sulla domanda proposta dall’appellante. La corte d’appello, infatti, ha, sul punto, ritenuto, correttamente o meno non importa, che, relativamente al predetto bene, l’appellante non avesse adempiuto al proprio onere probatorio, non avendo dimostrato che gli acquisti da parte della L. erano stati, in realtà, fatti dal padre con denaro proprio o, altrimenti, con denaro comune dei conti bancari cointestati, con la conseguente applicazione, a dispetto della contraria dichiarazione contenuta nell’atto d’acquisto, del regime previsto della comunione legale tra i coniugi. La pronuncia sulla domanda (o meglio, sul motivo di gravame con il quale l’appellante aveva censurato la sentenza di primo grado che l’aveva rigettata) esclude, pertanto, che la sentenza impugnata possa essere efficacemente censurata per il vizio costituito dalla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c..

4. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 183 c.p.c., nella formulazione vigente fino al 1 marzo 2006, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la decisione con la quale il tribunale ha accolto la domanda che gli attori avevano proposto solo in sede di precisazione delle conclusioni, procedendo alla divisione dell’asse ereditario con la formazione di due soli lotti della consistenza pari, rispettivamente, a 7/9, che ha assegnato congiuntamente agli attori, ed a 2/9, che ha assegnato al convenuto, in tal modo violando la preclusione stabilita dall’art. 183 c.p.c., u.c., superabile nel giudizio di divisione solo in ipotesi di indivisibilità prevista dall’art. 720 c.c., la quale, tuttavia, nel caso di specie non ricorre, visto che, in sede di divisione di una comunione ereditaria, qualora di essa facciano parte più immobili che, seppure isolatamente considerati non possano dividersi in tante frazioni quante sono le quote dei condividenti, ma consentano da soli o insieme con altri beni, di comporre la quota di alcuni in modo che porzioni degli altri possano formarsi con i restanti immobili del compendio, non può più farsi questione di indivisibilità o di non comoda divisibilità, dato il realizzarsi del soddisfacimento delle quote con la ripartizione qualitativa e quantitativa dei vari cespiti compresi nella comunione.

5. Il motivo è infondato. Lo scioglimento della comunione ereditaria non è, infatti, incompatibile con il perdurare di uno stato di comunione ordinaria rispetto a singoli beni già compresi nell’asse ereditario in divisione: in effetti, quando siano state compiute le operazioni divisionali, dirette ad eliminare la maggior parte delle varie componenti dell’asse ereditario, indiviso al momento dell’apertura della successione, la comunione residuale sui beni ereditari si trasforma in comunione ordinaria (Cass. n. 20041 del 2016, in motiv.). Va, dunque, rimarcato che, in tema di divisione ereditaria, l’art. 720 c.c., consente al giudice di attribuire un bene non comodamente divisibile, per l’intero, non solo nella porzione del coerede con quota maggiore, ma anche nelle porzioni di più coeredi che tendano a rimanere in comunione come titolari della maggioranza delle quote (cfr. Cass. n. 2296 del 1996; Cass. n. 5603 del 2016), a prescindere dal fatto che altri coeredi si oppongano (Cass. n. 20250 del 2016: nell’ipotesi di non comoda divisibilità dei beni immobili compresi nell’eredita, è consentito che venga assegnato ad alcuni coeredi, che ne facciano unitamente domanda, un cespite comodamente separabile dagli altri e rientrante nella quota congiunta dei coeredi predetti, ancorché gli altri coeredi si oppongano, in quanto, come risulta dai principi in tema di comunione e dal combinato disposto degli artt. 718 e 720 c.c., l’attribuzione a più coeredi di un unico cespite pro indiviso è possibile se vi sia la richiesta congiunta dei coeredi interessati, che sono soltanto coloro i quali rimarranno in comunione nei confronti del cespite di cui è stata domandata la attribuzione). Peraltro, nel giudizio di divisione, la richiesta di attribuzione di beni determinati ai sensi dell’art. 720 c.c., attiene alle modalità di attuazione della divisione e, pertanto, essendo diretta al già richiesto scioglimento della comunione, della quale costituisce una mera specificazione, non costituisce domanda nuova (Cass. n. 10624 del 2010; Cass. n. 10856 del 2016; Cass. n. 3497 del 2019) e può essere, dunque, proposta anche in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado (Cass. n. 14756 del 2016: l’istanza di attribuzione ex art. 720 c.c., pur tendenzialmente soggetta alle preclusioni processuali, può essere avanzata per la prima volta in corso di giudizio, e anche in grado di appello, ogni volta che le vicende soggettive dei condividenti o quelle attinenti alla consistenza oggettiva e qualitativa della massa denotino l’insorgere di una situazione di non comoda divisibilità del bene, così da prevenirne la vendita, che rappresenta l’extrema ratio voluta dal legislatore) e, per la prima volta, perfino in appello (Cass. n. 9367 del 2013, che ha affermato il diritto delle parti del giudizio divisorio di mutare, anche in sede di appello, le proprie conclusioni e richiedere per la prima volta l’attribuzione, per intero o congiunta, del compendio immobiliare, integrando tale istanza una mera modalità di attuazione della divisione): la composizione delle quote, infatti, non modifica né la causa petendi, né l’oggetto del giudizio, ma attiene solo alle modalità di scioglimento della comunione in base alla stima dei beni, rimessa alla valutazione del giudice di merito (Cass. n. 9655 del 2013). Peraltro, nel caso in cui, in primo grado, una delle parti abbia formulato domanda di attribuzione dell’intero compendio, mentre l’altra si è limitata ad opporsi alla divisione, quest’ultima non può più proporre la domanda di attribuzione per la prima volta in grado di appello (Cass. n. 10624 del 2010). Quanto al resto, la Corte non può che ribadire come, in tema di scioglimento di una comunione ereditaria avente ad oggetto un compendio immobiliare, l’accertamento del requisito della comoda divisibilità del bene, ai sensi dell’art. 720 c.c., è riservato all’apprezzamento di fatto del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, coerente e completa (Cass. n. 5603 del 2016; Cass. n. 7961 del 2003). Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, infatti, in tema di divisione giudiziale di compendio immobiliare ereditario, l’art. 718 c.c., in virtù del quale ciascun coerede ha il diritto di conseguire in natura la parte dei beni a lui spettanti con le modalità stabilite nei successivi artt. 726 e 727 c.c., trova deroga, ai sensi dell’art. 720 c.c., nel caso di ‘non divisibilità’ dei beni, come anche in ogni ipotesi in cui gli stessi non siano ‘comodamente’ divisibili, vale a dire quando, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l’aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive, e non richiedenti opere complesse o di notevole costo, ovvero porzioni che, sotto l’aspetto economico-funzionale, risulterebbero sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell’intero (Cass. n. 25888 del 2016; Cass. n. 12498 del 2007). La non comoda divisibilità di un immobile, integrando, tuttavia, un’eccezione al diritto potestativo di ciascun partecipante alla comunione di conseguire i beni in natura, può ritenersi legittimamente praticabile solo quando risulti rigorosamente accertata la ricorrenza dei suoi presupposti, costituiti, come detto, dall’irrealizzabilità del frazionamento dell’immobile, o dalla sua realizzabilità a pena di notevole deprezzamento o di costi eccessivi, o dall’impossibilità di formare in concreto porzioni autonome. La relativa indagine implica un accertamento di fatto e la conseguente decisione è incensurabile in sede di legittimità per violazione di legge, potendosi sindacare soltanto l’eventuale omesso esame circa un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. n. 30073 del 2017, in motiv.; Cass. n. 14577 del 2012): ciò che, nella specie, non risulta neppure implicitamente dedotto.

6. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 713, 718 e 726 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, dopo aver espunto dalla massa ereditaria da dividere la quota pari alla metà dell’appartamento di via (omissis) di proprietà di L.S. , non ha provveduto alla formazione di un altro progetto divisionale con la conseguenza che nel lotto del convenuto ricade il 50% dell’appartamento di proprietà del de cuius, vale a dire un bene del quale non è l’esclusivo proprietario e per di più indivisibile, violando, in tal modo, la funzione della divisione, che è quella di far cessare lo stato di comunione trasformando i diritti pro quota dei singoli partecipanti in diritti individuali di proprietà esclusiva.

7. Il motivo è infondato. Il ricorrente, infatti, lamenta, in sostanza, che, nel lotto attribuitogli, è stata inserita una quota immobiliare: la quale, però, costituisce l’intero diritto del de cuius caduto in successione. La composizione delle quote, del resto, attiene, come in precedenza osservato, solo alle modalità di scioglimento della comunione in base alla stima dei beni ed è rimessa alla valutazione del giudice di merito (Cass. n. 9655 del 2013). La corte d’appello, sul punto, con motivazione non apparente né contraddittoria, ha ritenuto di confermare il progetto divisionale ‘C’ sul rilievo che lo stesso comprendeva nella quota di M.M. proprio la quota dell’appartamento che lo stesso occupa, ‘ciò che si presume rispettare un vecchio assetto di interessi, prospettato nel processo e non specificamente (in)contestato, così come del resto ha detto il tribunale’.

8. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 183 c.p.c., nella formulazione vigente fino al 1 marzo 2006, e dell’art. 723 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che il convenuto avesse fatto richiesta agli attori di rendere il conto della propria gestione non già con la comparsa di risposta ma con una successiva memoria e che, al riguardo, il contraddittorio non era stato accettato dagli attori i quali, al contrario, con la prima risposta, ne avevano eccepito la tardività, laddove, in realtà, la richiesta di rendiconto era stata proposta dal convenuto nella memoria depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., u.c., che, nella formulazione applicabile alla controversia in questione, consente di precisare o modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già proposte, per cui la domanda di rendiconto non è affatto tardiva, tanto più che, a norma dell’art. 723 c.c., il rendiconto è un’operazione inserita nel procedimento divisorio allo scopo di determinare lo stato attivo e passivo, le porzioni ereditarie e i conguagli.

9. Il motivo è infondato. Questa Corte, infatti, ha avuto modo di affermare che, per potersi procedere al rendiconto ai sensi dell’art. 723 c.c., è necessaria un’apposita domanda. Il rendiconto, infatti, ancorché per il disposto dell’art. 723 c.c., costituisca un’operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, in quanto preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone, tuttavia in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale, ben potendosi richiedere la divisione giudiziale ex art. 1111 c.c., a prescindere dal rendiconto. L’azione di rendiconto costituisce, pertanto, un’azione autonoma e distinta rispetto alla domanda di scioglimento della comunione con la conseguenza che la domanda riconvenzionale con la quale si intende chiedere il rendiconto dev’essere proposta, a pena di inammissibilità con la comparsa di risposta ai sensi dell’art. 167 c.p.c., che ne preclude la proponibilità nell’ulteriore corso del giudizio (Cass. n. 5861 del 1991): in particolare, la domanda di rendiconto non può essere proposta per la prima volta, nel corso del giudizio di primo grado, con la memoria prevista dall’art. 183 c.p.c., comma 5, nel testo in vigore anteriormente alle modifiche apportate con il D.L. n. 35 del 2005, conv. con la L. n. 80 del 2005, applicabile ratione temporis al giudizio in questione.

10. Con il quinto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 713, 720, 718, 726 e 728 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, pur dando atto dell’inattualità dei valori dei beni, ha rifiutato l’ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio ed ha, quindi, deciso sulla di valori non più attuali in quanto risalenti al momento in cui gli stessi sono stati stimati nel corso del giudizio di primo grado, laddove, in realtà, il valore dei beni da dividere dev’essere determinato con riferimento al loro valore venale al momento della decisione.

11. Con il sesto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 726 c.c., e degli artt. 191 e 196 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rifiutato l’ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio per determinare all’attualità i valori dei cespiti da dividere, sul rilievo che, pur non essendovi dubbi circa la perdita di attualità dei valori, ‘un po’ per non essere stati specificamente contestati dall’appellante’, ‘un po’ per la presuntiva compensazione in questi sei anni di certe note turbolenze del mercato immobiliare verificatesi come conseguenza della crisi economica di fine 2008’, tali valori si presumono ancora validi, specie se si considera che, in mancanza di consulenza di parte e di specifiche deduzioni dell’appellante, la nuova consulenza tecnica avrebbe un’inammissibile funzione esplorativa. Sennonché, ha osservato il ricorrente, la logica del ragionamento della corte d’appello è incomprensibile e non consente di rinvenire nella sentenza l’esistenza di un minimo motivazionale che è escluso proprio dal contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, con la conseguente inesistenza della motivazione.

12. Il quinto ed il sesto motivo, da trattare congiuntamente per l’evidente connessione dei temi trattati, sono infondati. La corte d’appello, infatti, ha escluso la necessità di un supplemento peritale non essendovi dubbi ‘in ordine alla perdita di attualità dei valori’ (rectius: all’attualità dei valori) dei beni da dividere dei quali, in sostanza, ha presunto la perdurante validità ‘un po’ per non essere stati specificamente contestati dall’appellante’, ‘un po’ per la presuntiva compensazione in questi sei anni di certe note turbolenze del mercato immobiliare verificatesi come conseguenza della crisi economica di fine 2008’, aggiungendo, infine, che, in mancanza di consulenza di parte e di specifiche deduzioni dell’appellante, la nuova consulenza tecnica avrebbe avuto un’inammissibile funzione esplorativa. Ora, nel giudizio di divisione, il valore dei beni si determina con riferimento ai prezzi di mercato correnti al tempo della decisione, con conseguente necessità di aggiornamento di tale valore d’ufficio, anche in appello, per adeguarlo alle fluttuazioni di mercato dello specifico settore (Cass. n. 9207 del 2005). Tale regola, tuttavia, non esclude che, in tale giudizio, può aversi riguardo alla stima dei beni effettuata in data non troppo vicina a quella della decisione tutte le volte in cui il giudice di merito – con apprezzamento di fatto non censurabile in cassazione se non per omesso esame circa un fatto decisivo a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile ratione temporis – accerti che, nonostante il tempo trascorso, per la stasi del mercato o per il minor apprezzamento del bene in relazione alle sue caratteristiche, non sia intervenuto un mutamento di valore che renda necessario l’adeguamento di quello stabilito al tempo della stima (cfr. Cass. n. 3635 del 2007). Ne consegue che, ove solleciti una rivalutazione degli immobili per effetto del tempo trascorso dall’epoca della stima, la parte che vi è interessata ha l’onere non soltanto di allegare le ragioni di un significativo mutamento del valore degli stessi intervenuto medio tempore, non essendo sufficiente il mero riferimento al lasso temporale intercorso (Cass. n. 3029 del 2009), ma anche di fornire, nel caso in cui a tal fine invochi una consulenza tecnica d’ufficio, tutti gli elementi materiali e logici che possano convincere il giudice, sia pur a livello di fumus, della sussistenza del dedotto mutamento e, così, giustifichino la promozione del complesso meccanismo degli accertamenti peritali d’ufficio, senza sollecitare il compimento di un’indagine meramente esplorativa che ricerchi elementi, fatti o circostanze non provati (Cass. n. 2205 del 1996; Cass. n. 3343 del 2001; Cass. n. 5422 del 2002; Cass. n. 3191 del 2006; Cass. n. 3130 del 2011; Cass. n. 30218 del 2017). Stando così le cose, la decisione impugnata si sottrae, evidentemente, alle censure formulate dal ricorrente il quale, infatti, non solo non ha indicato quale fatto la corte d’appello, nel presumere l’attualità dei valori a suo tempo accertati dal consulente tecnico, avrebbe omesso, benché decisivo, di esaminare, ma neppure ha chiarito, riproducendone in ricorso i passi significativi (v. invece, il ricorso, p. 13, 14), di avere dedotto in giudizio tutti gli elementi necessari per convincere il giudice del lamentato mutamento di valore dei beni da dividere e di aver chiesto, proprio su tale base, l’aggiornamento del relativo accertamento peritale.

13. Con il settimo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 789 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, dopo aver espunto dal lotto assegnato a M.M. il 50% dell’appartamento di (omissis) di proprietà di L.S. , non ha predisposto, come imposto dall’art. 789 c.c., un progetto di formazione delle quote che tenesse conto anche del fatto che il valore dei cespiti nel frattempo si era modificato e che l’inserimento del 50% de quo non rispondeva alla funzione della divisione, che è quella di trasformare la quota di diritto in un lotto formato da beni di esclusiva proprietà.

14. Il motivo è assorbito dal rigetto dal terzo.

15. Il ricorso dev’essere, quindi respinto.

16. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

17. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

la Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese di lite, che liquida in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

 

Originally posted 2015-07-08 12:20:30.

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